Introduzione
Essere medico, oggi, non è semplice, si
devono fornire risposte, motivare, comunicare diagnosi e terapie, interpretare
bisogni ed i pazienti sono sempre più esigenti ed “informati”.
Il medico è spesso “parte del problema” del
paziente, rappresenta colui che deve “dare risposte”. Queste risposte possono
essere comunicate in molti modi, dando diverse visioni di sé e motivando
diversamente il paziente. Tecnicamente tra i compiti del medico non vi è solo
quello di informare sulla diagnosi e sulla terapia, ma anche quello di essere
“terapeuta” come figura, di dare assistenza a chi si rivolge a lui con fiducia,
avendolo spesso preferito ad altri colleghi, ma soprattutto deve comunicare con
chi è nello “status” di malato, di persona che unisce al disagio della
patologia, quello dell’accettazione della stessa. Il ruolo terapeutico del
medico come “figura” prevale su quello del medico come semplice “prescrittore
direttivo”. È per questo che occorre attivare un processo di consapevolezza e
di supporto per conferire “maggior potere” al paziente in senso positivo,
facendosi percepire e migliorando gli aspetti della relazione. Questo “maggior
potere” produrrà un cambiamento da parte del paziente, in termini di
accettazione della diagnosi e di accettazione della terapia, ma soprattutto
potrà produrre le energie che gli sono necessarie. Questa brevissima, se
vogliamo filosofica missione, oggi è decisamente rilevante in una professione,
quella medica, dove il servizio reso al paziente è determinato anche dalla
“Qualità percepita” da parte dello stesso, aumentandone così la motivazione
alla cura e la conseguente efficacia.
Il Counseling permette a due
interlocutori che dialogano, di instaurare una relazione ottimale, per
“alleggerire” il peso di preoccupazioni, ansie, paure. Molto importante, per il
counselor, far percepire una modalità di ascolto partecipativa, sensibile e di
condivisione dei temi affrontati.
La concezione del Counseling, come
efficace metodologia di comunicazione e relazione dialogica, è già diffusa in
medicina nel nostro Paese ma si deve ancora molto approfondire e sviluppare
professionalmente.
Il Counseling, infatti, non è solamente
una professione a sé, ma è anche una componente di molte altre professioni
nelle quali conta il rapporto interpersonale e la qualità della comunicazione e
l’empatia.
Il Counseling medico fu ispirato dal
medico e psicoanalista inglese Balint. Quanto emergeva dalla sua esperienza era
che la competenza tecnica del medico, ancorché necessaria, non bastava. Anzi,
in alcune circostanze poteva addirittura essere di ostacolo alla costituzione
di una buona relazione medico-paziente, limitando alcuni aspetti essenziali del
processo di cura. Da allora l’esperienza del Counseling medico si è sviluppata
e ampliata, coinvolgendo argomenti di carattere filosofico e bioetico e
culturale
"Il medico è la medicina", si dice spesso, e una
parola giusta, detta al momento giusto può essere più terapeutica di molte
altre cure, tanto quanto una diagnosi comunicata senza la adeguata delicatezza
può rivelarsi più deleteria del problema organico in sé. Uno degli obiettivi
del Counseling, quindi, è anche quello di educare i professionisti, quelli
operanti in campi a stretto contatto col pubblico, a una educazione più
consapevole
Introduzione al
counseling
“Ognuno di noi è unico e
irripetibile, ha talenti e potenzialità che possono essere riconosciuti e
sviluppati. La volontà è la capacità di dare fiducia a ciò che si è e di
avviarsi verso ciò che si può diventare.”
(Marcella Danon)
Il termine Counseling (o anche Counselling
secondo l'inglese
britannico)
indica un'attività professionale che tende ad orientare, sostenere e sviluppare
le potenzialità del cliente, promuovendone atteggiamenti attivi, propositivi e
stimolando le capacità di scelta.
Il Counselor è un esperto in relazioni,
pertanto si occupa di favorire le relazioni intrapersonali ed interpersonali ,
il processo di cambiamento e dell’attività di aiuto a persone, gruppi
,organizzazioni e comunità.
Il sostantivo counseling deriva dal verbo inglese to counsel, che risale a sua volta dal verbo latino consulo-ĕre,
traducibile in "consolare", "confortare", "venire in
aiuto".Quest'ultimo si compone della particella cum
("con", "insieme") e solĕre
("alzare", "sollevare"), sia propriamente come atto, che
nell'accezione di "aiuto a sollevarsi". oppure “cum” “solus” nel
senso di essere con chi è solo. Per consolare occorre avere qualcosa da
raccontare ed entrare in relazione con l’umanità dell’altro. Il counseling, in
questa luce, concerne la natura delle relazioni umane.
Il concetto di umano precede il concetto
di persona, così come il concetto di umanità precede il concetto di
personalità. L’essere umano diventa persona nella relazione con l’altro e
sviluppa la sua identità biologica attraverso le occasioni a lui proposte dagli
incontri con le persone essenziali nel corso della sua vita. La sua identità
emerge dalla sua natura umana e prende forma nella costruzione della sua
personalità. L’approccio del counseling all’umano si configura come processo di
relazione con l’umano presente nelle soggettività che il counselor incontra.
In senso tradizionale, il counseling è un
processo di interazione fra due persone,il counselor ed il cliente,il cui
scopo è quello di “abilitare il cliente
a prendere una decisione riguardo a scelte di carattere personale o a problemi
o difficoltà specifiche che lo riguardano direttamente” ( Burnett 1977). La
solitudine, il dubbio, l’aggressività , la sessualità, la morte, la mancanza di
autostima sono i più comuni esempi di difficoltà.
Pur non svolgendo un’attività terapeutica
il counselor attraverso l’offerta di tempo, attenzione, accettazione,
comprensione, rispetto, autenticità, empatia, con il sostegno di
specifiche metodologie, promuove lo
sviluppo del cliente aiutando quest’ultimo a trovare la voglia, i modi, la
fiducia, le risorse per svolgere la propria esistenza in modo costruttivo.
Il Counseling si basa sull’ intuizione
rogersiana secondo la quale, se una persona si trova in difficoltà il miglior
modo di venirle in aiuto non è quello di dirle cosa fare quanto piuttosto quello
di aiutarla a comprendere la sua situazione e a gestire il problema assumendo
da sola e pienamente la responsabilità delle scelte eventuali.
Il
processo di Counseling enfatizza l’importanza dell’autopercezione,
dell’autodeterminazione e dell’autocontrollo: il risultato finale è
misurabile attraverso “ il grado in cui si riesce a rendere una persona capace
di azioni razionali e positive, a renderla più soddisfatta, più in pace con se
stessa, più capace di condurre una vita serena e socialmente integrata ( Zavallone
1977).
Fare Counseling vuol dire soprattutto
trasmettere la capacità di sapere, saper fare ma
soprattutto saper essere. Compito del counselor
è quello di assistere il cliente nella ricerca del suo vero sé e poi di
aiutarlo a trovare il coraggio di essere quel sé ( Rollo May ) e favorire
l’integrazione tra ciò che il cliente vorrebbe essere, ciò che è e ciò che
pensa di essere.
Il Counselor non fa terapia, non opera cure di nessun genere, non fa
psicoterapia, nè consulenza, non insegna psicologia e genericamente non usa mai
il prefisso psico se non acquisito per competenza.
Il Counseling, infatti, differisce dalla
psicoterapia ,in quanto l’individuo in tal caso è portatore non di un problema
specifico ma di un disturbo strutturale di personalità , rispetto al quale
occorre invece operare una ristrutturazione globale del proprio modo di essere e dell’intero quadro
cognitivo.
La figura professionale del Counselor
nasce negli anni trenta in America e risponde a tutte quelle persone che pur
"non desiderando diventare psicologi o psicoterapeuti svolgono un lavoro
che richiede una buona conoscenza della personalità umana." (Rollo May)
Nel caso specifico del Counselor non sarà sufficiente una adeguata formazione
teorica ma occorrerà che le teorizzazioni siano in parte esperite attraverso un
"training professionale individuale e/o di gruppo", che garantisca il
superamento da parte del Counselor di quella tendenza dell’io ad
"esercitare un counseling sulla base di propri, più o meno rigidi,
pregiudizi". (Rollo May).
Ma è senz'altro Carl Rogers che getta le
fondamenta del Counseling come lo intendiamo noi oggi con il suo testo: “Counseling
e Psicoterapia” (1940) e la successiva definizione della Psicologia
esistenziale. Nel 1952 nasce in America la Counseling Association, sull'onda di
un incredibile sviluppo del Counseling come servizio di consulenza ed
educazione.
In Europa il Counseling nasce negli anni
70, principalmente in Gran Bretagna, come servizio di orientamento pedagogico e
strumento di supporto nei servizi sociali e nel volontariato. Vengono create
successivamente due importanti associazioni di riferimento, la British
Association for Counseling (
BAC ) e nel 1994 l'European
Association for Counseling ( EAC ).
In Italia, nel 1993 si costituisce la S.I.Co., Società Italiana di Counseling, che si
prefigge l'obiettivo di riunire in un unico organismo i Counselor e le
organizzazioni che si occupano di Counseling e nel 1996 viene costituita la FAIP, la“FEDERAZIONE DELLE ASSOCIAZIONI ITALIANE DI PSICOTERAPIA
che ha lo scopo di raccogliere in un’associazione comune le organizzazioni
professionali impegnate nel rapporto di aiuto alla persona, nonché singoli
professionisti, censiti in categorie ben distinte.
La FAIP si articola infatti in due
diverse divisioni assolutamente autonome per quanto riguarda gli indirizzi, le
linee guida e gli ambiti professionali, ciascuna delle quali ha un’autonoma
rappresentanza democratica.
Tali commissioni sono:
-La Divisione Psicoterapia;
-La Divisione Counseling.
In quali contesti è possibile operare il counseling?
In teoria non esiste un campo di attività
specifico per il Counseling. Se pensiamo al ruolo del Counselor come la persona
che favorisce lo sviluppo e l’utilizzazione delle potenzialità già insite nel cliente,
aiutandolo a superare quei problemi di personalità che gli impediscono di
esprimersi pienamente e liberamente nel mondo, ci rendiamo immediatamente conto
che tutto questo può avvenire in ogni tipo di contesto. Infatti, in funzione di
ciò il Counseling si sta affermando in ogni campo professionale con lo scopo di
migliorare le relazioni interpersonali a seconda dei contesti con adeguate
formazioni specifiche.
Avremo dunque, con le dovute variazioni
di contesto:
•Counseling individuale, di coppia,
familiare, di gruppo
•Counseling scolastico.
•Counseling aziendale (piccole, medie e
grandi industrie, o in ogni caso unità lavorative strutturate)
•Counseling sessuologico (relativo alla
coppia e alle varie tendenze sessuali o alle violenze e agli abusi sessuali)
•Counseling per persone in stato avanzato
di malattia (AIDS Cancro)
Esistono, inoltre, “il Counseling Psicologico”, che prevede la diagnosi psicologica,
l’orientamento, la prevenzione, il sostegno, la riabilitazione, è una attività di
esclusiva competenza del ruolo professionale dello psicologo (che avrà seguito
a sua volta una formazione per Counselor).
E ancora “il Counseling Medico”che indica le abilità e le qualità necessarie in
ambito sanitario per facilitare la comunicazione nella situazione di cura; tale
attività prevede la diagnosi fisica, prescrizione di farmaci, esami
specialistici, ricoveri ed è di pertinenza esclusiva del medico (che anche in
questo caso avrà seguito una formazione
per Counselor).
Definizione della
"Figura Professionale del Counselor".
Il Counselor è la Figura
Professionale che, avendo seguito un corso di studi almeno triennale, ed in
possesso pertanto di un diploma rilasciato da specifiche scuole di formazione
di differenti orientamenti teorici, è in grado di favorire la soluzione di disagi
esistenziali della sfera emotiva che non comportino tuttavia una
ristrutturazione profonda della personalità.
L'intervento di Counseling
può essere definito come la possibilità di offrire un orientamento o un sostegno a singoli individui o a gruppi, favorendo lo sviluppo e l'utilizzazione delle potenzialità del
cliente. All'interno di comunità: ospedali, scuole, università, aziende, comunità
religiose, l'intervento di Counseling è mirato da un lato a risolvere nel
singolo individuo il conflitto esistenziale o il disagio emotivo che ne
compromettono una espressione piena e creativa, dall'altro può inserirsi come
elemento facilitante il dialogo tra la struttura e il dipendente.
Tratto dal Codice deontologico della Federazione PREPOS:
Il professionista formato ad esercitare la
professione del Counseling è chiamato “ Counselor”. Il Counselor è il
professionista che mediante ascolto, sostegno e orientamento, migliora le
relazioni interpersonali ( la relazione di ogni persona con se stessa) ed
extrapersonali (le relazioni nella coppia, nella famiglia, nei gruppi, nelle
formazioni sociali e nelle istituzioni).
Questa semplice definizione
del counseling, proposta da PREPOS ed accettata nel Convegno Nazionale della
FAIP del 12 febbraio 2006, descrive l’operatività di una professione il cui
esercizio richiede abilità relazionali, conoscenza di sé e delle proprie emozioni
e competenze comunicative.
Non è una professione
pedagogica, medica, giuridica, sociologica, psicologica, psicoterapeutica,
assistenziale, spirituale, religiosa, economica, aziendale, morale, scolastica,
politica, filosofica, del benessere, dell’estetica, della disabilità, della
mediazione interpersonale, dell’orientamento pur esplicandosi nell’area di
lavoro di queste altre diverse professioni.
Il Counseling è piuttosto costituito da una serie di abilità, di
esperienze e di comprensioni sul significato della natura umana e della
relazione tra uomini. L’attività del Counselor è
quella di una educazione, o rieducazione, all’umanità nel rapporto che il
cliente ha con se stesso, con gli altri e con il Counselor stesso; il Counselor
è lo strumento umano per favorire lo sviluppo dell’umanità del cliente.
Definizione del Counseling
Il Counseling è una relazione
d’aiuto che muove dall’analisi dei problemi del cliente, si propone di
costruire una nuova visione di tali problemi e di attuare un piano d’azione per
realizzare le finalità desiderate dal cliente (prendere decisioni, migliorare
relazioni, sviluppare la consapevolezza, gestire emozioni e sentimenti superare
i conflitti)
Def. Approvata al Convegno Nazionale Faip (
Federazione delle Associazioni Italiane di Psicoterapia e Counseling) del 2006.
Il Counseling è una modalità
di relazione, che principalmente accoglie, stimola e da speranza di piena
realizzazione di se stessi all’umanità della persona. Focus del Counseling è
l’individuo con la sua umanità e spiritualità (intesa come senso e significato
dato alle principali sfide della vita). Il Counseling aiuta il cliente ad
aiutarsi attraverso l’offerta genuina di tempo, attenzione, onestà,
professionalità, congruenza, empatia e anelito a una speranza frutto di scelte
consapevoli.
Il Counseling relazionale
esistenziale può essere visto come uno strumento per accettare i passaggi
dell’esistenza (separazione, morte, felicità, crescita, senso della propria
vita, etc). Il Counseling inteso come metodologia per ritrovare se stessi, le
proprie speranze, il proprio carattere, i propri valori, i propri schemi di
riferimento.
Def. del Dott. Francesco Saviano.
Il
Counseling è un uso della relazione basato su abilità e principi che sviluppa
l’accettazione l’autoconsapevolezza e la crescita. Può essere mirato alla
definizione di problemi specifici, alla presa di decisioni, ad affrontare i
momenti di crisi, a confrontarsi con i propri sentimenti e i propri conflitti
interiori o a migliorare le relazioni con gli altri .rispettando i valori, le
risorse personali e la capacità di autodeterminazione.
Def della
British Association for Counselling, 1992
L’OMS
(Organizzazione Mondiale della Sanità) definisce il Counseling come un processo
focalizzato, limitato nel tempo e specifico che tramite il dialogo e
l’interazione personale mette in condizione la persona di gestire le difficoltà
e potenziare le proprie risorse , creando le condizioni relazionali che
contribuiscono al suo ben-essere.
Il
Counseling è un intervento breve racchiuso in un numero limitato di colloqui
(non oltre i 12-15 per ciclo), della durata di 45-50 minuti. Si tratta in
genere di un percorso individuale ma, secondo la situazione, può coinvolgere
anche la coppia e il gruppo. L’intervento si avvale di metodologie operative
flessibili orientate alla definizione di un percorso nel quale il cliente è
agevolato nella formulazione di un suo problema e a individuare gli strumenti a
disposizione adatti per affrontarlo.
La
dimensione temporale è quella del “qui ed ora”
centrata sul presente della relazione. La durata complessiva della relazione è
quella strettamente necessaria al cliente per raggiungere i suoi obiettivi e
dipende in gran parte dalla sua collaborazione e dal suo impegno attivo, anche
al di fuori del colloquio di Counseling. Il raggiungimento degli obiettivi
determina la conclusione naturale dell’intervento, a meno che non emerga un
nuovo bisogno da parte del cliente e si concordi un nuovo ciclo di incontri
regolato da un contratto professionale. Tuttavia, in molti casi, è sufficiente
un unico ciclo di incontri. La periodicità dei colloqui viene concordata
durante il percorso, che si svolge con la garanzia della totale riservatezza,
in un ambiante accogliente e confortevole.
La personalità del Counselor
Il counselor può lavorare solo attraverso se
stesso; Adler afferma, infatti: “la tecnica del trattamento deve essere dentro
di voi”. Tutto questo presuppone che il
professionista conosca prima di tutto molto bene se stesso e non soltanto
approcci teorici e aspetti tecnici della sua professione. Significa essere in
grado di ri-conoscere e ri-contattare quello che sempre di fronte alla relazione
nuova con l’altro in sé prende forma: immagini, fantasie, emozioni, sensazioni.
Conoscere se stessi vuol dire per esempio capire come condurre la persona in
bisogno verso quella “alleanza terapeutica” che
gli permetterà di favorire l’auto-analisi e far luce sui suoi problemi.
Bisogna
allora prima di tutto essere consapevoli come Counselor delle proprie risorse e
dei propri limiti. Puntare prima di ogni altra cosa a prendere coscienza di
eventuali problemi personali, se ve ne sono, che potrebbero influenzare
negativamente la relazione terapeutica. Essere consapevoli di quali emozioni,
argomenti, situazioni possono metterci a disagio. Verificare se l’essere
esposti a emozioni e sentimenti molto intensi (rabbia, paura, dolore, passioni)
possano procurare frustrazione, imbarazzo, sofferenza, oppure far rivivere
analogie problematiche e non risolte con la propria esistenza. Elementi tutti
che, magari inconsapevolmente, potrebbero condurre il Counselor ad assumere
atteggiamenti evitanti e inefficaci nella relazione terapeutica.
Conoscere se stessi vuol dire allora imparare a gestire le proprie
emozioni davanti a quelle del cliente, e non andare in confluenza con le sue.
Pertanto
il Counselor deve essere autentico, una persona
reale spontanea e trasparente il cui obiettivo non è stabilire chi o come debba
essere il cliente, ma cercare prima di tutto di diventare se stesso, di
realizzarsi, inteso come scoprirsi reale per essere sempre più autentico.
Questo modo di essere permette una comunicazione aperta con il cliente, senza
maschere o finzioni, in cui il counselor condivide ed esprime apertamente se
stesso e i propri sentimenti se questi sono utili nella chiarificazione di un
pensiero espresso dal cliente. Questa autenticità può e deve essere ottenuta
attraverso il superamento da parte del Counselor dei propri più o meno rigidi
pregiudizi che non permettono di dimostrare al cliente un’accettazione
positiva incondizionata verso la sua unicità e individualità, pronti ad
accoglire prima che il suo problema la sua persona. Vedere gli altri attraverso
i propri pregiudizi è certamente, secondo Rollo May, il blocco peggiore e più
deviante nella personalità del Counselor. Questa tendenza non può essere
eliminata del tutto ma può essere tenuta sotto controllo anche attraverso un
percorso di crescita e di autoanalisi svolta dal Counselor stesso.
Liberarsi
o quantomeno tenere sotto controllo i propri pregiudizi permette al Counselor
di esprimere al cliente un atteggiamento comprensivo e
non giudicante che a sua volta promuove lo sviluppo interiore del
cliente favorendo il raggiungimento di una crescente fiducia nella relazione
d’aiuto e nel Counselor stesso.
Il Counselor , inoltre, deve essere una persona empatica, cioè deve sperimentare, sentire
il mondo del cliente come se fosse il proprio, senza mai perdere di vista la
qualità del "come se". Comporta l'essere sensibile, da parte del Counselor,
al cambiamento dell'esperienza soggettiva del cliente. E' questa qualità che
permette di sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d'onda della persona e che le
permette l'inizio della relazione d'aiuto .
L’empatia è una capacità innata ma in
gran parte può essere acquisita e il suo sviluppo è la conseguenza di una
chiarificazione personale del Counselor e dell’interesse e del piacere che egli
trae dal contatto con gli altri. Il Counselor è pertanto tenuto a sviluppare la
sua capacità di empatia. Ciò comporta imparare a rilassarsi mentalmente,
spiritualmente, e anche fisicamente, imparare ad abbandonare il proprio sé
all’altro e, in questo processo, essere disposti a venire trasformati. Si
tratta di morire a se stessi per vivere con gli altri. È la grande rinuncia al
proprio sé, la perdita temporanea della propria personalità, per ritrovarla
infinitamente più ricca nell’altro. “Ciò che tu semini non riprende vita se
prima non muore…”. (Rollo May).
L'ideogramma
giapponese "in ascolto" ben sintetizza, e allo stesso tempo integra,
le qualità del buon counselor e di qualunque altro professionista della
Relazione d'aiuto.
Difatti,
l'Ascoltare (con la A maiuscola!) non è cosa da tutti. Come vedremo, contempla
differenti dimensioni e si presenta come un connubio di più qualità. Il
cosidetto "Ascolto attivo" è sintesi
dell'essere "Centrati sul cliente"
nella sua totalità, ascoltare ed essere ricettivi con tutti i nostri sensi.
Ma
vediamo le parti che costituiscono l'ideogramma:
-
Orecchio.
Chi ascolta deve avere un "buon orecchio". Quando si ha di fronte una
persona che parla è fondamentale prestare attenzione; sia al 'Cosa', ovvero al
contenuto, sia al 'Come', dunque alla forma. Comprendere la domanda che ha
portato il cliente a rivolgersi al professionista è indispensabile per far
partire una relazione d'aiuto. Il "buon orecchio" permette al Counselor
di isolare e riconoscere quegli aspetti verbali e non verbali che maggiormente
possono essere utili al cliente, rimandandoglieli per un lavoro di
consapevolezza ed esplorazione. L'arte del "porgere orecchio" rimanda
alla capacità di ascoltare il problema del cliente e comprenderlo
intellettualmente, assumendo il suo punto di vista (empatia cognitiva).
Permette di afferrare ciò che quest'ultimo sta tentando di comunicare e ciò che
in quel momento sta sentendo, ovvero il suo quadro concettuale di riferimento.
-
Alterità/TU.
L'uomo è in relazione. Non si configura come un Io, ma come un Io-Tu di buberiana memoria, un'isola che getta
continui ponti sull'Altro da sé. Il principio della dialogicità e dell'incontro
è indispensabile in una Relazione d'aiuto che voglia essere tale. E'
comunicazione con l'altro, apertura, avvicinamento, costruzione di ponti di
comunicazione che portano al dialogo. Dialogo che
contempla la dimensione del Noi, che rimanda al costrutto dell'empatia,
ovvero alla capacità, non solo di riconoscere l'altro ma, di entrarci in
contatto, "sentirlo dentro", partecipare alla sua esperienza
soggettiva. Come diceva Ardigò: "istituire comunicazioni inter-soggettive
sino a mettersi nei panni dell'altro". Alterità significa quindi
attraversare e lasciare la propria cornice di riferimento per entrare in quella
del cliente, aprirsi a ciò che quest'ultimo sperimenta nel qui ed ora. Cliente
con dignità e valore, con energie per far "tornare acqua alla sua
fonte". Il costrutto della Relazione costituisce lo sfondo su cui ogni
Relazione d'aiuto acquista valore e significato.
-
Cuore.
"Addio", disse la
volpe. "Ecco il mio segreto. E' molto semplice: non si vede bene che col
cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi".
"L'essenziale è invisibile agli
occhi", ripeté il piccolo principe, per ricordarselo.
"E' il tempo che tu hai perduto per la
tua rosa, che ha fatto la tua rosa così importante".
"E' il tempo che ho perduto per la mia
rosa...", sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.
"Gli uomini hanno dimenticato questa
verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di
quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa...".
"Io sono responsabile della mia
rosa..." ripeté il piccolo principe per ricordarselo. [A.De Saint Exupery,
p.98].
L’ascolto attivo che il Counselor esprime al cliente è un
ascolto comprensivo. Saper ascoltare attivamente ha a che fare con il cuore,
con l'atteggiamento caldo e accogliente del counselor, del suo calarsi
affettivamente ed emotivamente nel mondo interiore del cliente (empatia
affettiva), sintonizzandosi sulle sfumature delle emozioni e dei sentimenti. Un
sano atteggiamento affettivo nei confronti del cliente lo aiuta a crescere, a
fidarsi all'interno della relazione, a creare quel ponte sicuro che gli
permette di avventurarsi nel suo mondo in compagnia del Counselor.
-
Unità/Unione.
Si riferisce alla completezza, all'integrazione (di gestaltica memoria) delle
diverse parti e dei differenti aspetti che costituiscono la persona. E' un far
scoprire e far sperimentare al cliente la sua forma, la
sua interezza, la sua unione di cuor e mente, di sentimento e intelletto,
in un approccio olistico in grado di abbracciare la sua interezza. La Persona,
infatti, è prima di tutto, un intero. Presupposto, questo, che costituisce una
delle pietre angolari dell'approccio gestaltico che, all'interno della
relazione d'aiuto, prende forma nell'inseparabile unità dell'esperienza umana
nel suo costituirsi momento dopo momento. L'invito al cliente è di essere se
stesso il più pienamente e completamente possibile.
-
Occhio.
"Vedere" e non guardare, costruire un contatto visivo con l'Altro,
dimostrando attenzione e presenza. Uno sguardo attento, interessato e non
fugace. Si ascolta non soltanto con le orecchie e con l'udito ma anche tramite
gli occhi. Da ciò discende il costrutto di Ascolto
totale, attento non solo alle parole, ma anche a tutto ciò che viene comunicato
attraverso il corpo. Porgere e posare lo sguardo sulla persona significa
dirle: "Sono qui per ascoltarti, hai la mia piena attenzione. Saper
ascoltare implica un "Saper osservare", condurre un'osservazione
competente.
Occorre
precisare che un Counselor, non è un “salvatore”,
ha egli stesso pulsioni e sentimenti che deve essere in grado però di saper
governare, attraverso il raggiungimento di una maggior auto-consapevolezza di
sé e del suo lavoro, accettando anche i propri errori, e i propri limiti, non
evitando di esporsi al confronto e alle critiche costruttive. Il Counselor deve
sviluppare quello che Adler chiama “il coraggio dell’imperfezione” ovvero la
capacità di sbagliare. Coraggio dell’imperfezione significa portare i propri
sforzi su un campo di battaglia importante, là dove si compiono cose
significative e dove il fallimento o il successo diventano questioni
relativamente secondarie. Infatti, il cosiddetto “complesso del Messia” risulta
essere l’espressione di un’eccessiva ambizione da parte del Counselor che
ritiene il proprio lavoro indispensabile all’umanità.
In
genere un buon Counselor non è colui che risolve i problemi degli altri, ma un
professionista esperto nella relazione d’aiuto. Può limitarsi ad aiutare il suo
cliente ad imparare da solo a gestire e risolvere i suoi problemi, e non
risolverli al suo posto. Ma la
differenza tra salvatore e agevolatore è anche un’altra e serve a comprendere
quali sono i limiti umani e professionali di questo lavoro.
Il
professionista della relazione d’aiuto non è chiamato a trovare la soluzione al
problema altrui, ma è chiamato a sostenere l’altro nel recuperare ed esercitare
al meglio le proprie capacità creative personali per comprendere e valutare in
maniera appropriata azioni presenti e passate e assumere decisioni opportune
riguardo al suo futuro.
Il
tentativo è quello di ricondurre l’individuo in bisogno a se stesso, potenziare
la sua motivazione a mettersi in auto-ascolto per attivare quelle energie
interiori che lo conducano in tutta autonomia a porsi di fronte alla vita con
un atteggiamento nuovo e diverso rispetto al passato: attivo, propositivo,
costruttivo.
In
nessun caso il Counselor potrà mai fare a meno, di una supervisione
competente a cui fare riferimento e di “un lavoro su se stesso” (un
proprio percorso di auto-ascolto, di un Training di formazione adeguato cui il
professionista è chiamato a sottoporsi per raggiungere una crescita personale
matura e consapevole), per essere sempre nella maniera più opportuna di
sostegno al proprio cliente. Essere aperti alla supervisione, e a un lavoro su
se stessi continui, dunque, rappresentano più di un addestramento, o di una
consultazione. Ricordano il processo stesso del Counseling, specialmente quando
si vanno ad esplorare problemi personali del supervisionato emersi nella
relazione d’aiuto.
Alle
volte, soprattutto all’inizio della professione ci possono essere momenti
critici che possono riguardare il contro-transfert del professionista, i suoi
sentimenti, contraddizioni e ambivalenze, le sue difficoltà relazionali con il
cliente. Attraverso la super-visione si possono approfondire questi temi
consentendo al counselor un’auto-esplorazione
e un’ aggiornamento, caratteristiche fondamentali di una professione che
per raggiungere ed aiutare l’altro, fare un lavoro di qualità e fa crescere l’altro
come individuo ha bisogno di mettere sempre in gioco se stesso in un equilibrio
non statico ma dinamico.
Carl Rogers e la corrente Umanistico-Esistenziale
Le persone si
lasciano convincere più facilmente dalle ragioni che esse stesse hanno scoperto
piuttosto che da quelle scaturite dalla mente di altri.
Blaise Pascal
Carl
Rogers (1902-1987), psicologo e psicoterapeuta americano, può essere
sicuramente considerato il Padre del Counseling; nel 1987 gli fu assegnato il
premio Nobel per la Pace non solo per la sua attività pacifista, ma anche per
il suo pensiero e la sua pratica professionale d'educatore, psicologo e
psicoterapeuta, che furono caratterizzate da un orientamento all'incontro
armonioso tra le persone.
Nato
in una famiglia che gli trasmise valori profondi sia nelle relazione con se
stesso sia in quella con le altre persone, C.Rogers ebbe anche, durante la sua
crescita, altri due nutrimenti interiori fondamentali: il rapporto con il sacro
e quello con la natura. Forse per questa ragione il suo corso di studi
accademico fu particolare: prima s'iscrisse ad agraria, successivamente ad una
facoltà teologica. Dopo un soggiorno di sei mesi in Cina e in seguito alle
riflessioni nate dal contatto con la cultura orientale, poté mettere a fuoco il
suo bisogno di libertà di pensiero e il suo interesse per le scienze psicologiche;
questo lo portò ad intraprendere un corso di studi di carattere psico-pedagico.
Dopo
la laurea, per oltre un decennio lavorò come psicologo presso alcune
istituzioni sociali per la rieducazione di bambini e ragazzi delinquenti e
ritardati e per il sostegno alle loro famiglie. Il suo scopo principale era
essere d'aiuto a queste persone; al tempo stesso sentiva che la prassi
psicologica tradizionale non lo facilitava. Anche confrontandosi con vari
insuccessi, in questo periodo C.Rogers iniziò a mettere a fuoco e a sviluppare
quello che sarebbe stato il suo approccio professionale alla psicoterapia, che
mise in atto fattivamente dal 1924.
Nel
1942 pubblica “Counseling and Psychotherapy” che getta le basi della sua
“Terapia centrata sul cliente”,pubblicato nel 1951 diventando uno dei massimi
esponenti della corrente Umanistica-Esistenziale che si porrà in Europa e nel
mondo come la terza forza della psicologia in alternativa alla psico-analisi e
al comportamentismo. Rogers, infatti, insieme ad altri esponenti tra cui Rollo
May, Viktor Frankl, Abraham Maslow e in ambito italiano
Roberto Assaggioli rifiuta sia il pessimismo insito nella visione
psicoanalitica dell’uomo, sia la concezione dell’uomo come un robot tipica del
comportamentismo.
C.Rogers ha sicuramente espresso nel proprio
approccio ciò che egli era, una persona umana e sensibile, umile e capace, ben
radicata sia nel proprio mondo percettivo sia in quello intellettivo.
Sicuramente una figura interiormente libera eppure pienamente responsabile del proprio
apporto educativo all'umanità. Un essere umano dal quale imparare come persona
e al quale ispirarsi come professionisti delle "relazioni d'aiuto"
La
rivoluzione Rogersiana, rispetto all'approccio della psicologia tradizionale,
inizia dallo spostare l'attenzione del lavoro psicoterapeutico dalla
risoluzione del problema al facilitare l'emersione delle risorse interiori
dell'individuo. Pertanto
il rapporto terapeutico sarà centrato e focalizzato sulla
persona e sulla sua esistenza prima che sul suo problema, sulla qualità del
rapporto umano. Secondo Rogers, infatti, spostando l'attenzione dagli aspetti intellettivi (la mente) a quelli
emotivi (la percezione), e concentrandosi sul presente, “sul qui ed
ora”, espresso dall’individuo si promuove la crescita interiore e una maggiore
capacità di affrontare e gestire le problematiche da parte del cliente.
Scriveva
Rollo May: “Se durante la seduta mi soffermo principalmente sul come e sul
perché è sorto il problema, avrò capito tutto tranne la cosa più importante, la
persona esistente. Avrò capito tutto salvo l’unica vera fonte di dati a mia
disposizione, ossia questo essere umano che sperimenta, emerge, diviene, costruisce
un mondo”.
Una
delle caratteristiche della psicoterapia esistenziale è che le tecniche
cambiano; questi cambiamenti però non avvengono a caso, ma dipendono di volta
in volta dai bisogni della persona. L’incontro terapeutico diventa, pertanto, un’espressione dell’essere, cioè è un rapporto
totale tra due persone, che comporta diversi livelli. Uno di questi è il
livello delle persone reali: l’incontro mitiga la solitudine fisica che
caratterizza tutti gli esseri umani; pertanto il professionista lascia in parte
il suo ruolo d'esperto inteso come qualche cosa che determina "up &
down", e si pone verso il cliente avendo cura della comunicazione e della
relazione, utilizza accoglienza e rispetto anziché formalità e freddezza.
Essendo
tutti gli individui di pari dignità valore e responsabilità , Rogers elimina il concetto di "paziente", trasformandolo
in “cliente”. Tale termine libera la persona dal senso di malattia,
sottintende una reazione paritaria, in cui la persona offre all’operatore la
possibilità di svolgere la sua attività, permettendogli di mettere a frutto le
sue competenze professionali e nello stesso tempo, di acquisire nuovo materiale
esperienziale e formativo. Non c'e' quindi la persona che in maniera del tutto
passiva si affida ad un esperto ma ci sono due persone
(Counselor e Cliente) che fanno insieme un percorso di crescita.
La terapia non
direttiva o centrata sul cliente si basa sul presupposto che ogni
individuo tende all’autorealizzazione, e struttura il proprio Sé ricercando un accordo tra la
valutazione-accettazione dei valori suggeriti dall'esterno, e quelli conformi
alla richiesta di autorealizzazione. Rogers, infatti,
considera la salute mentale come la progressione normale della vita e la
malattia mentale (e altri problemi umani) come distorsioni della "tendenza attualizzante". Quest'ultima è una
forza vitale che può essere definita come la tendenza fondamentale
dell'organismo a realizzare le proprie potenzialità e di autocurarsi; essa
opera sia sul piano ontogenetico che su quello filogenetico e necessita di un
contesto di relazioni umane positive, favorevoli alla conservazione e
rivalutazione dell'Io. Se la nozione dell'Io è realistica, ovvero se vi è
corrispondenza tra le capacità che il soggetto crede di possedere e quelli che
effettivamente possiede, egli sarà congruente e potrà svilupparsi in modo
unitario, autonomo e soddisfacente. In genere il
cliente si trova in una situazione di incongruenza tra l'esperienza reale
dell'organismo e l'immagine di sé che egli ha quando si rappresenta
l'esperienza. Lo scompenso nasce quando l’individuo, durante l’età infantile,
vive situazioni insolite e anormali che comportano
gravi fratture che non favoriscono il normale sviluppo. Per Rogers è nell’infanzia che si forma il concetto di sé. Il bambino
piccolo, quando nasce, ha in sé la capacità di scegliere o rifiutare in modo
chiaro le esperienze in rapporto al modo in cui esse possono agevolare o
ostacolare le esigenze dell’organismo, in base a quello che Rogers chiama una
valutazione organismica. Se i genitori assicurano amore, stima, sicurezza,
considerazione in modo incondizionato, accettando anche aspetti negativi del
bambino, il suo concetto di sé si plasmerà sull’esperienza in modo libero e
autonomo, le esperienze saranno vissute conformi rispetto al concetto di sé e
ai bisogni organismici. La tendenza attualizzante guiderà il bambino e poi
l’adulto fino alla piena autorealizzazione. Se la considerazione positiva viene
data in modo condizionato, il bambino introietterà valori, mete, modi di essere
incongruenti con la propria esperienza organismica. A causa di questi
condizionamenti, il concetto di sé viene sviluppato su basi esterne e rigide e
le esperienze verranno selezionate o distorte affinché si possa mantenere la
coerenza del sé che si è formato. Le esperienze personali non fluiranno più liberamente
in accordo con l’organismo e con la tendenza attualizzante. Quando la frattura
tra il concetto di sé e l’esperienza è troppo grande e le difese non svolgono
più la loro funzione di protezione, nasce uno stato di incoerenza nel sé e
comincia il disagio. Sarà compito del Counselor attraverso
l’accettazione positiva incondizionata che il cliente non ha ricevuto, innescare
un processo di autoconsapevolezza e di integrazione tra il sé e l’esperienza,
che porti la persona a divenire consapevole della propria condizione, dei
propri stati d’animo e dei propri bisogni; dall'altra favorire la riattivazione
della "tendenza attualizzante.
La terapia centrata sul cliente si basa su alcuni principi
fondamentali:
·
Le persone possono essere capite solamente partendo dalle loro
percezioni e dai loro sentimenti, ossia dal loro mondo fenomenologico.
Per capire un individuo dobbiamo concentrare la nostra attenzione non sugli
eventi che egli esperisce ma sul modo in cui li esperisce, perché il mondo
fenomenologico di ogni persona è la determinante principale del suo
comportamento e ciò che la rende unica.
·
Le persone sono consapevoli del loro comportamento.
In questo senso il sistema di Rogers è simile a quello della psicanalisi e
dell'analisi dell'Io, poiché pone la consapevolezza delle motivazioni tra i
suoi obiettivi principali.
·
Le persone sono per loro natura buone e capaci di comportarsi in
maniera efficace; esse diventano inefficaci e disturbate
solamente quando interviene un apprendimento errato.
·
Le persone sono capaci di comportamenti finalizzati e sanno darsi
degli obiettivi. Esse non rispondono passivamente
all'influenza dell'ambiente o alle proprie pulsioni interiori, e sono in grado
di compiere scelte autonome.
Il
Counselor non dovrebbe cercare di manipolare gli eventi per conto del cliente;
piuttosto dovrebbe creare le condizioni in grado di facilitare
un processo decisionale autonomo da parte sua. Quando le persone non si
preoccupano eccessivamente delle valutazioni, delle esigenze e delle preferenze
altrui, la loro esistenza risulta guidata da una tendenza innata
all'autorealizzazione.
Sulla
base del presupposto che una persona matura e bene adattata fonda i suoi
giudizi su elementi intrinseci di soddisfacimento e autorealizzazione, Rogers evitava di imporre obiettivi al cliente
durante la terapia. Tale approccio è definito “non
direttivo”.Secondo Rogers è il cliente che deve "prendere il
comando" e dirigere l'andamento della conversazione e della seduta. Il
compito del Counselor è quello di creare le condizioni per cui durante la
seduta il cliente possa entrare in contatto con la sua natura più profonda e
valutare da solo quale stile di vita è per lui intrinsecamente gratificante.
Poiché aveva un visione molto positiva delle persone, Carl Rogers riteneva che attraverso
l'esercizio di decisioni autonome esse sarebbero riuscite non solo ad essere
soddisfatte di se stesse, ma anche a diventare delle persone capaci di
instaurare relazioni socialmente adeguate.
Secondo Rogers e gli esponenti del filone
umanistico ed esistenziale, la persona deve assumersi la responsabilità della
propria vita . È spesso difficile per un Counselor astenersi
dal dare consigli, dal farsi carico dell'esistenza del cliente,
specialmente quando tale cliente appare incapace di prendere decisioni
autonome. Ma i rogersiani si attengono strettamente alla regola secondo cui, un'atmosfera terapeutica calda, sollecita l'innata
capacità di crescita e di autorealizzazione dell'individuo . Essi ritengono
che se lo specialista interviene , il processo di crescita e di
autorealizzazione ne risulterà solo ostacolato, e che qualunque sollievo a breve
termine possa interferirà con la crescita a lungo termine del cliente.
In
definitiva il colloquio clinico è un incontro in cui al centro c’è la persona
con ciò che mette in gioco di sé, con ciò che vuole migliorare della sua vita,
con i suoi bisogni espliciti e quelli non detti.
La
persona che arriva in consulenza, ha già riconosciuto di avere un problema da
risolvere e di avere la necessità di essere aiutata per trovare la propria
soluzione personale alla questione. Ciò significa che di fronte allo stesso
problema ci possono essere soluzioni diverse, dipendenti dalla personalità,
dalle circostanze e dalle risorse interne del cliente.
Tecniche di counseling
Ogni
Counselor ha un proprio stile, e nel rispetto del codice deontologico può
utilizzare diverse tecniche o approcci in base sia alla sua formazione teorica
sia alla sua esperienza di vita.
Ogni
cliente è diverso, perché ogni individuo è unico ed irripetibile pertanto il
bravo Counselor è capace di trovare ascolto, comunicazione e stile diverso per
ogni cliente.
Il
Counselor durante la sua formazione triennale acquisirà le competenze per
potere approcciare ad un quesito espresso dal cliente con diverse tecniche dal
momento che non può affrontare le diverse situazioni con uno schema fisso e
prestabilito, ma deve implementare strategie diverse in base alla reale e
concreta situazione che ha di fronte; il processo d’intervento si deve plasmare
alle caratteristiche dell’essere umano sofferente a cui occorre proporre una
direzione per affrontare il suo malessere soggettivo. Pertanto il Counselor
potrà fare ricorso nel percorso all’ausilio di tecniche apprese dalla corrente
umanistica-esistenziale, dall’analisi transazionale di Berne, dalla logoterapia
di Frankl, dalla Gestalt di Perls, dal cognitivismo di Ellis e Beck.
Alcune
di queste correnti verranno approfondite successivamente, particolarmente
quelle che hanno un’implicazione nel counseling medico dove assume grande
importanza il senso e il significato dato a tematiche dell’esistenza quali:
senso e significato della sofferenza , della morte e della vita.
Etica e
deontologia professionale per un counselor.
Qualsiasi professione
che abbia a che fare con i rapporti tra le persone necessita di un codice di
condotta. Il Counseling, al pari della psicoterapia, si configura come una
relazione d’aiuto complessa e delicata, che impone la necessità di proteggere
la relazione stessa con norme precise valide sia per il professionista che per il
suo cliente. La deontologia risulta dunque
essere l’insieme dei diritti/ doveri che impone ai professionisti l’esercizio
della loro professione.
Articolo 1 Premessa
1. Il Codice Deontologico
rappresenta, per ogni socio, un insieme di indicatori di autoregolamentazione,
di identificazione e di appartenenza.
2. II Codice
Deontologico ha lo scopo di precisare l'etica professionale e le norme a cui il
Counselor deve attenersi nell'esercizio
della propria professione.
3. Costituisce illecito
deontologico qualunque comportamento contrario
alla dignità della professione, qualunque violazione
al codice penale.
4. Le norme
deontologiche indicate nel presente codice sono di natura vincolante: la loro
inosservanza sarà verificata e valutata dal Comitato Disciplinare Counseling.
Articolo 2 Principi generali
1. Il Counselor fonda la propria professione sui principi
etici dell’accoglienza e del rispetto, dell’autenticità e della congruenza,
della gentilezza e dell’ascolto, della responsabilità e della competenza.
2. L’attitudine del
Counselor è basata sul rispetto per i diritti umani e sull’accettazione delle
differenze personali e culturali. Egli è professionalmente libero di non
collaborare verso obiettivi che contrastino con le proprie convinzioni etiche.
3. Il Counselor è tenuto ad operare nel proprio
ambito di competenza professionale, a monitorare la propria formazione
attraverso un aggiornamento permanente ed il ricorso alla supervisione.
4. Il Counselor è responsabile dei propri atti professionali.
E’ tenuto ad uniformare la propria condotta ai principi del decoro e della
dignità professionale.
5. Il Counselor
considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle
per promuovere il benessere dell’individuo, del gruppo e della comunità.
6. Il Counselor tratta con riservatezza tutte le informazioni
dei clienti. E’ strettamente tenuto al segreto professionale, salvo per i casi
previsti dalla legge in vigore.
7. Il Counselor agisce
in conformità e nel pieno rispetto delle leggi vigenti.
Articolo 3 Rapporti con il
cliente
1. Il Counselor fornisce al cliente informazioni adeguate sui
confini deontologici della sua professione,
le finalità, gli assunti teorici e metodologici.
2. Il Counselor concorda
con il cliente gli obiettivi, i tempi e il compenso economico; ne favorisce
l’autonomia, rispettando la sua capacità di prendere decisioni e di operare
cambiamenti.
3. In ogni contesto professionale, il counselor deve adoperarsi
affinché sia rispettata la libertà di
scelta, da parte del cliente, del professionista a cui rivolgersi.
4. Il Counselor prende
tutti i provvedimenti necessari ad assicurare che il cliente non subisca danni
fisici o psicologici durante la consulenza.
5. Il Counselor evita
commistioni tra il ruolo professionale e vita privata che possano interferire
con l’attività professionale o che possano recare danno all’immagine sociale
della professione.
6. Costituisce illecito
deontologico sfruttare il cliente da un punto di vista finanziario,sessuale,
emotivo od in qualunque altro modo.
7. Il Counselor è tenuto a garantire al cliente la piena
libertà di concedere, di rifiutare o di ritirare il consenso alla
diffusione in forma anonima del percorso
realizzato.
8. Il Counselor deve
mantenere la riservatezza sulle prestazioni professionali oltre che per i
contenuti anche relativamente alla prestazione stessa.
9. Il Counselor è sempre
tenuto al segreto professionale anche in caso di morte o di minori a meno che
quest’ultimo viva una situazione di pericolo o di sfruttamento.
Articolo 4 Rapporto con colleghi
1. I rapporti tra i
Counselor devono ispirarsi ai principi del rispetto reciproco, della lealtà e
della colleganza, della corresponsabilità e dell’armonia.
2. Il Counselor promuove e favorisce rapporti di scambio e
collaborazione. Si impegna a comunicare alla comunità professionale i progressi
delle sue conoscenze, dei suoi metodi e
delle sue tecniche.
3. Può avvalersi dei
contributi di altri specialisti, con i
quali realizza opportunità di
integrazione e valorizzazione delle reciproche competenze.
4. Il Counselor si
astiene dal dare pubblicamente su colleghi giudizi negativi relativi alla loro
formazione, alla loro competenza ed ai risultati conseguiti a seguito di
interventi professionali, o comunque giudizi lesivi del loro decoro e della loro
reputazione professionale.
5.Costituisce aggravante
il fatto che tali giudizi negativi siano volti a sottrarre clientela ai
colleghi.
6.Qualora ravvisi casi
di scorretta condotta professionale che possano tradursi in danno per gli
utenti o per il decoro della professione, il Counselor è tenuto a darne
tempestiva comunicazione al responsabile deontologico
7. E’ eticamente e
deontologicamente corretto informare il Responsabile Etico Disciplinare
Counseling di condotte lesive della
dignità di appartenenza alla professione Counselor.
Articolo 5 La professione
1. Il Counselor conosce
le caratteristiche fondanti della propria professione e apporta il proprio contributo
professionale nella relazione con altre professioni e professionisti, facendo
ad esse riferimento.
2. Il Counselor è a
conoscenza del fatto che esistono norme giuridiche che attribuiscono ad altre
professioni, attività riservate. Il Counselor è tenuto a conoscere il contenuto
delle principali norme, nel caso in cui collabori con tali professionisti.
Qualora si trovasse in condizioni di incertezza è tenuto ad informarsi e,
preventivamente, ad astenersi per non contravvenire a tali norme.
3. Il Counselor
contrasta l’esercizio abusivo delle professioni regolamentate ed utilizza il proprio titolo professionale per
attività ad esso pertinenti, e non avalla con esso attività ingannevoli od
abusive.
Articolo 6 Sanzioni
1. Il responsabile
deontologico valuta le segnalazioni pervenute e dispone l’avvio di un
procedimento disciplinare o l’archiviazione
a seguito di una istruttoria preliminare. La segreteria operativa, dopo
aver ascoltato il collega ed eventuali testimoni, dispone la sanzione
disciplinare nei termini dell’ avvertimento, di una nota di biasimo, della
sospensione e della radiazione.
Il setting nel counseling
Il
setting è l'insieme delle regole, la dimensione spazio-temporale che delinea luoghi, tempi, modalità della relazione.
Il
setting è, infatti, costituito dal set (ovvero
dall’ambiente fisico e funzionale all’interno del quale ha luogo la relazione),
dalle regole organizzative del “contratto”
(orario, durata e pagamento delle sedute), e dalle regole
relazionali e comunicative che mediano il rapporto tra il counselor ed
il cliente.
Il setting esterno, inteso come “ambiente”
in cui si svolgono gli incontri, deve essere un setting protettivo. In genere
il counselor incontra il cliente, dopo un breve colloquio telefonico, presso
uno studio professionale ,quindi un luogo riservato e chiuso, sufficientemente luminoso;
attenzione va posta alla disposizione della stanza, dei mobili,alla
essenzialità degli oggetti presenti affinchè non siano dispersivi, ma
facilitanti, alla comodità delle sedie, che non devono essere scomode, nè
eccessivamente rilassanti, perché il loro scopo è di facilitare un lavoro, non
un riposo.
Nessuno
deve poter entrare e disturbare, non c’è nulla che può interrompere quello che sta
accadendo: ogni incontro è un incontro speciale, sacro.
Se
nella psicoterapia il setting può
prevedere l’uso del lettino ed il terapeuta, secondo l’impostazione freudiana è
di spalle al paziente, nel Counseling il Counselor e cliente devono potersi guardare
negli occhi. Poiché centrale nel Counseling è la relazione empatica, l’ascolto,
il riconoscimento ed il set deve agevolare il contatto emotivo. È quindi
importante che Counselor e cliente siano seduti uno di fronte all’altro senza
oggetti fisici in mezzo che ostacolino il contatto. Sarebbe per questo motivo
buona pratica evitare l’utilizzo di un tavolo o una scrivania che rendono
difficile la vicinanza e la vera intimità.
Per
quanto riguarda il setting interno od emotivo,
il setting di psicoterapia connette l’interpersonale con l’intrapsichico e
collega il qui ed ora con il là ed allora. Ci si occupa prevalentemente del
cambiamento dell’individuo a livello psicologico inconscio, avendo come focus
principale una ristrutturazione profonda della personalità. Il setting di Counseling
si occupa dell’interpersonale e del qui ed ora, avendo come focus principale il
cambiamento individuale a livello sociale. Data la diversità del setting
emotivo, esiste anche una diversità della durata della relazione: il tempo
necessario è evidentemente più lungo nel caso di una terapia.
Il
setting è formato anche dal contratto che riguarda i tempi e
le regole di intervento. Il
contratto viene stipulato, in genere, al termine del primo incontro, tra il counselor
e il cliente che si accordano sulle finalità e sui metodi per il raggiungimento
degli obiettivi .
Il
contratto, traccia i confini dell’intervento terapeutico. Gli elementi del
contratto sono:
1. Accoglienza,
presentazione iniziale, consenso al trattamento dei dati personali e
registrazione dei dati anagrafici di base
2. Definizione del
rapporto professionale (durata, frequenza, pagamento, spostamento degli
incontri, ritardi, prevedibile durata del percorso). Consenso informato. La
durata di un colloquio individuale di counseling, generalmente è 45 min-1 ora.
Appartengono inoltre alle modalità del setting tutti gli aspetti economici, di
impegno reciproco nella puntualità, la riservatezza del segreto professionale a
protezione della relazione e del processo di cura dell’altro.
3. Proposta di un
piano di intervento: definizione degli obiettivi e delle strategie. Nel
primo colloquio si cerca di delimitare il problema, facendo emergere la
richiesta esplicita e la domanda implicita del cliente e verificando la sua
disponibilità a sperimentare nuove strategie comportamentali. Se è possibile si
preferisce definire obiettivi a breve , medio e lungo termine, verso cui
muoversi insieme al cliente, definendo i tempi di una prima serie di colloqui
che attivano il cambiamento. Quando necessario, e richiesto dal cliente, a
questa prima serie di colloqui, ne segue una seconda, più breve di
consolidamento dei traguardi raggiunti e approfondimento di problematiche
lasciate in sospeso.
La
definizione delle tecniche comporta la spiegazione del percorso al cliente che
si intende intraprendere per raggiungere gli obiettivi. Diverse sono, infatti,
le tecniche di cui può avvalersi il Counselor in relazione ad ogni singolo
problema esposto dal cliente. Pertanto l’operatore dovrà avere una approfondita conoscenza delle tecniche
disponibili, e una buona dose di intuitività e competenza per scegliere di
volta in volta l’approccio più giusto rispettando la sensibilità del cliente.
La
relazione professionale termina con il raggiungimento degli obiettivi e la
conclusione del contratto. Ma alcune responsabilità professionali continuano
anche dopo il termine del contratto. Esse sono:
·
Mantenere un alto grado di riservatezza.
·
Evitare ogni forma di uso della relazione per
scopi diversi da quelli originari.
·
Essere disponibili per eventuali bisogni
successivi.
Giuramento di Ippocrate
Giuro
per Apollo medico e per Asclepio e per Igea e per Panacea e per tutti gli Dei e
le Dee, chiamandoli a testimoni che adempirò secondo le mie forze e il mio
giudizio questo giuramento e questo patto scritto. Terrò chi mi ha insegnato
quest’arte in conto di genitore e dividerò con Lui i miei beni, e se avrà
bisogno lo metterò a parte dei miei averi in cambio del debito contratto con
Lui, e considerò i suoi figli come fratelli, e insegnerò loro quest'arte se
vorranno apprenderla, senza richiedere compensi né patti scritti. Metterò a
parte dei precetti e degli insegnamenti orali e di tutto ciò che ho appreso i
miei figli del mio maestro e i discepoli che avranno sottoscritto il patto e
prestato il giuramento medico e nessun altro. Sceglierò il regime per il bene
dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio, e mi asterrò dal recar danno
e offesa. Non somministrerò a nessuno, neppure se richiesto, alcun farmaco
mortale, e non prenderò mai un’iniziativa del genere; e neppure fornirò mai a
una donna un mezzo per procurare l'aborto. Conserverò pia e pura la mia vita e
la mia arte. Non opererò neppure chi soffre di mal della pietra, ma cederò il
posto a chi è esperto di questa pratica. In tutte le case che visiterò entrerò
per il bene dei malati, astenendomi ad ogni offesa e da ogni danno volontario,
e soprattutto da atti sessuali sul corpo delle donne e degli uomini, sia liberi
che schiavi. Tutto ciò ch'io vedrò e ascolterò nell'esercizio della mia
professione, o anche al di fuori della professione nei miei contatti con gli
uomini, e che non deve essere riferito ad altri, lo tacerò considerando la cosa
segreta. Se adempirò a questo giuramento e non lo tradirò, possa io godere dei
frutti della vita e dell’arte, stimato in perpetuo da tutti gli uomini; se lo
trasgredirò e spergiurerò, possa toccarmi tutto il contrario.
Consapevole
dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che
assumo, giuro: di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio
e di comportamento; di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la
tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza,
cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e
sociale, ogni mio atto professionale; di non compiere mai atti idonei a
provocare deliberatamente la morte di un paziente; di attenermi alla mia
attività ai principi etici della solidarietà umana, contro i quali, nel
rispetto della vita e della persona, non utilizzerò mai le mie conoscenze; di
prestare la mia opera con diligenza, perizia, e prudenza secondo scienza e
coscienza ed osservando le norme deontologiche che regolano l'esercizio della
medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della
mia professione; di affidare la mia reputazione esclusivamente alla mia
capacità professionale ed alle mie doti morali; di evitare, anche al di fuori
dell’esercizio professionale, ogni atto e comportamento che possano ledere il
prestigio e la dignità della professione. Di rispettare i colleghi anche in
caso di contrasto di opinioni; di curare tutti i miei pazienti con eguale
scrupolo e impegno indipendentemente dai sentimenti che essi mi ispirano e
prescindendo da ogni differenza di razza, religione, nazionalità condizione
sociale e ideologia politica; di prestare assistenza d’urgenza a qualsiasi
infermo che ne abbisogni e di mettermi, in caso di pubblica calamità a
disposizione dell'Autorità competente; di rispettare e facilitare in ogni caso
il diritto del malato alla libera scelta del suo medico, tenuto conto che il
rapporto tra medico e paziente è fondato sulla fiducia e in ogni caso sul
reciproco rispetto; di osservare il segreto su tutto ciò che mi è confidato,
che vedo o che ho veduto, inteso o intuito nell’esercizio della mia professione
o in ragione del mio stato; di astenermi dall’"accanimento"
diagnostico e terapeutico.
ppocrate, padre della medicina occidentale, considerava il
rapporto tra medico e paziente improntato sulla philia (amicizia) e sull’agape
(affetto). Dallo atro agathos (vale
a dire dal buon medico) ci si aspettava la tecnophilia,
amore per l’arte medica e la philantropia,
amore per l’uomo.
Questa impostazione armonizzava un rapporto asimmetrico. Al
potere e al sapere del terapeuta corrispondeva infatti la dipendenza passiva
del malato.
Il giuramento di Ippocrate e l’alleanza tra individui con
ruoli diversi non costituirono l’unica forma di rapporto medico paziente nel
mondo greco e romano. Jori ha esaminato (“Medicina e medici dell’antica
Grecia”, ed. Il Mulino, 1996 ) il testo Ippocratico “Perì tèchnes” (Sull’ arte
medica), uno dei settantadue volumi che costituiscono il “corpus Hipocratycum”.
Dal suo saggio emerge un dato significativo: molti esponenti dell’arte
sanitaria ritenevano il sapere scientifico estraneo al contributo del paziente
ed erano refrattari a stabilire con lui un rapporto umano fondato sull’empatia
sull’ascolto e sul dialogo. La storia personale del malato non li influenzava,
non li coinvolgeva. Per loro il rapporto si basava sulla sordità, sul silenzio,
sulla gestione esclusiva da parte del medico di un sapere concluso,
formalizzato, “elitario”.
Per Ippocrate il dovere del medico è fare il bene del
paziente: compito del malato è accettarne l’operato. Un
rapporto paternalistico,
nel cui ambito la responsabilità morale del professionista, depositario delle
conoscenze tecniche, risiede nella certezza di operare per il bene degli altri.
Il medico greco era considerato, grazie alle conoscenze tecniche un “demiurgo”,
un mediatore tra uomo e divinità. Concezione “alta” che comportava privilegi,
autorità morale, impunità giuridica. Ci troviamo di fronte ad un modello di
medicina che riflette in parte la vita e la società della polis greca fondata
sull’ordine, sulla tradizione e sull’obbedienza a leggi considerate universali.
La contrapposizione tra stili professionali così lontani
avrebbe incontrato una proposta di conciliazione nelle tesi di Galeno,
tardo erede di Ippocrate, che secoli dopo la morte del maestro di Kos tracciò
il profilo del medicus gratiosus, bene
accetto al malato, compassionevole, amabile, attento alle sue esigenze fisiche
e psicologiche. Galeno delineò i modi e le forme che avrebbero fatto del medico
una figura “autorevole”. Doveva essere elegante ma sobrio, capace di modulare
il suo comportamento sulle esigenze e sulle preferenze dichiarate o intuite del
suo interlocutore fragile, bisognoso di cure e di attenzione.
Ma nonostante questi nuovi concetti, per secoli le regole
del rapporto guaritore-malato si sono basate sul giuramento di Ippocrate, cui
dobbiamo anche il concetto di segreto professionale. L'etica ippocratica
riflette l'ideale del medico filantropo al servizio di tutti, al di sopra delle
divisioni religiose, politiche, culturali, sociali ed economiche.
Fino al medioevo il medico è
stato considerato un “sacerdote della salute”. L’unica persona in grado di
preservare il dono supremo di Dio: la vita.
Se analizziamo questa relazione attraverso l’analisi transazionale
di Eric Berne, il rapporto medico-paziente può essere considerato una diade
verticale in cui il medico si trova sempre in uno stato dell’Io
genitore, ed il paziente è sempre in uno stato dell’Io bambino.
Medico (genitore)
Paziente (bambino)
Successivamente il mondo
latino, arabo, il medioevo, definito a torto dagli ignoranti periodo buio,
limitato, e regressivo determinarono una graduale evoluzione delle conoscenze
scientifiche culminate nell’apogeo dell’illuminismo e nei successivi sviluppi
che hanno delineato lo scenario in cui viviamo. Le rivoluzioni
politico-religiose del sedicesimo secolo e le pubblicazioni innovative di
pensatori come l’inglese Locke e il tedesco Kant avrebbero convertito molto
lentamente la sudditanza del paziente in rispetto
reciproco: per entrambi i filosofi, ciascuno di noi è in grado di
servirsi della propria ragione, e’ una persona autonoma, indipendente. Pertanto
si delinea il principio di autonomia del paziente: oltre che una realtà fisica
l’essere umano possiede anche una dimensione morale che gli permette di avere
completa libertà di agire e di disporre della sua persona secondo la sua
volontà. Da questo momento il ruolo del paziente non è più passivo e dipendente
al volere del medico ma acquisisce un ruolo attivo nella scelta terapeutica.
Pertanto sarebbe auspicabile
una comunicazione medico paziente che alla luce dell’analisi transazionale, non
sia più una diade verticale tra uno stato dell’IO adulto .e uno stato dell’IO
bambino ma una diade orizzontale tra due stati dell’IO adulto.
Uno dei primi documenti che
associa il principio di autonomia al rapporto medico-paziente e delinea anche
il concetto di consenso informato è il Codice di Norimberga nel 1946 sancito
poi dall’art. 32 e dall’art. 34 della
Costituzione.
Questi
principi e le norme sul consenso informato, diffusi in Italia, intorno agli
anni 70, se da un lato hanno permesso un cambiamento nel rapporto paternalistico
tra medico e paziente, e hanno dato un ruolo attivo al paziente, dall’altro
hanno reso ancora più difficile il rapporto umano tra queste due figure.
Infatti il medico, per difendersi dagli attacchi legali dei pazienti, ha creato
vere e proprie barriere nella comunicazione attenendosi solo alle regole. Negli
USA, in caso di cancro, immediatamente il medico deve comunicarlo al paziente
altrimenti può incorrere in una causa penale, non è tenuto a comunicarlo ai
familiari in modo che fungano da ponte tra il paziente e il medico. Ciò ha
determinato, ancor di più una perdita di umanità da parte del medico, attento
in ogni momento a non avere problemi. Tuttavia, solo il superamento di questa
visione difensiva della medicina, potrà permettere di raggiungere un’alleanza
terapeutica, attraverso un processo di comunicazione solidale tra medico e
paziente.
Il distacco
tra il medico ed il paziente si è ulteriormente accentuato con il progredire
della tecnologia e della conoscenza. Negli atenei si insegna troppo
la tecnica e poco l’umanità. Il medico deve imparare a
pensare come un malato. Bisogna avere l’umiltà di imparare da chi
soffre.
In
molte parti del mondo la conquista di una relazione paritetica tra medico e
malato e’ ancora utopia, ma nei singoli casi in cui si attua una comunicazione
efficace basata sull’umanità e l’empatia, essa stessa è la chiave che avvia
insieme alla conoscenza dell’arte medica, il processo di guarigione
dell’individuo.
È
importante che al centro del sistema ritorni il paziente nella sua totalità in
quanto persona e non in quanto esclusivamente persona malata.
Nel
tunnel della sofferenza, accidente irriducibile del vivere, sgorga spontanea
nel malato la domanda: perché il medico, oltre che cercare di risolvere
tecnicamente i miei mali, e gliene sono grato, non si prende anche “cura
di me” e della mia sofferenza psichica e morale?
L’empatia,
l’umanità, la congruenza, e l’accettazione positiva incondizionata dell’altro,
la ricerca del senso e del significato della sofferenza sono la base del
counseling, per cui un medico che è anche un counselor potrà riuscire più facilmente ad avere un
rapporto quasi alla pari con un paziente e sarà agevolato nella comunicazione e
nello stabilire una buona alleanza terapeutica con quest’ultimo.
Gli Stati dell’IO e l’Analisi Transazionale di
Eric Berne
L’Analisi Transazionale (AT) è
un indirizzo psicologico nato negli anni ’50 ad opera dello psicoterapeuta Eric
Berne. Ma soprattutto si tratta
di una concezione dell'essere umano che
nasce da una filosofia positiva in cui ogni persona è
fondamentalmente O.K.
Il nome deriva dal termine "transazione" che significa
"scambio"che si verifica tra due individui che comunicano. Berne ha
posto molta attenzione alla natura degli scambi di comunicazione tra le persone
(dunque alle "transazioni") quali indicatori di elementi sottostanti
e più profondi della personalità. Ogni transazione si compone di due parti: lo
stimolo e la risposta. Le singole transazioni normalmente fanno parte di una
serie. Alcune di queste serie o sequenze di transazioni possono essere dirette,
produttive, sane; oppure possono essere ambigue, distruttive, malsane
Infatti nell'affrontare
determinate situazioni, le persone, tendono a ripetere un "copione", ovvero le esperienze vissute
nell'infanzia, e utilizzano strategie operative, che possono rivelarsi
auto-lesioniste o dolorose perché tendono a seguire le strade già tracciate per
sentirsi più sicuri, limitando la possibilità di un pensiero divergente che
riesca a trovare soluzioni a problemi vecchi e nuovi.
L'Analisi Transazionale e'
quindi una corrente che studia l'individuo all'interno dell'ambiente in cui
vive, attraverso i comportamenti che manifesta. Lo scopo di questa “teoria della personalità” e' quello di indagare i
comportamenti dei soggetti in relazione, comprendere le motivazioni per cui a
volte si sente disagio ed individuare quali siano le modalità più opportune per
evitare il disagio e vivere, il più possibile, in armonia.
Per raggiungere questi
obiettivi, l'Analisi Transazionale, scompone la struttura della personalità in
tre elementi distinti : gli .stati dell'Io. L'Io
è il nucleo della nostra identità psicologica e in quanto tale ci permette di
auto-riconoscerci e farci riconoscere
Gli stati dell’IO sono modi di
essere nel mondo. Più concretamente sono insiemi uniformi e coerenti di
pensieri, emozioni e comportamenti organizzati in modo coerente tra loro, che
rispecchiano le esperienze del passato e del presente dell’individuo.
Uno stato dell’Io viene
definito da Berne come “un sistema di sentimenti
accompagnati da un relativo insieme di tipi di comportamento”:
osservando pertanto il comportamento della persona che agisce possiamo
individuare lo stato dell’Io che ha generato tali atteggiamenti
.La personalità è
caratterizzata da 3 Stati dell’Io: Il Genitore, l’Adulto e il Bambino . L’
individuo quando interagisce, lo fa con
uno dei tre diversi stati
dell’Io.
Il
Genitore è una registrazione, fedele e
incancellabile, di ciò che è Stato detto e fatto dai genitori, dai fratelli e
dalle sorelle maggiori, dalle figure autorevoli dell’infanzia e, a volte,
perfino dalla televisione.
Vi sono racchiusi consigli,
imposizioni, il giusto e lo sbagliato, i rimproveri, le carezze. Poiché
provengono da figure essenziali per la crescita, esse non sono soggette a
valutazione critica:
“Così si fa”. Tali informazioni,
però, benché importanti quando furono archiviate, nella vita adulta si possono
mettere in discussione, per sostituirle con altre più aggiornate. Ed è qui che
entra in scena l’Adulto, il computer di bordo.
L’Adulto raccoglie,
cataloga, valuta e decide il comportamento più indicato, in risposta al “qui e
ora”, accerta la validità dei dati, aggiornandoli continuamente grazie
all’esperienza. Si forma intorno ai sei anni, cioè il periodo che coincide con
la crescita sociale dell’individuo.
Esempio: nel Bambino ci può essere
il divieto di avvicinarsi ai fornelli, perché è pericoloso (informazione del
Genitore). Tale divieto può essere rimosso in seguito, quando si cresce. Così,
l’Adulto archivia l’informazione perché riguardava una situazione che è
cambiata.
L’Adulto decide (o dovrebbe
decidere) l’atteggiamento da tenere in base al contesto, lo Stato dell’Io da
far affiorare nei vari momenti; difatti, a volte è necessaria la fermezza del
Genitore, altre volte ancora c’è bisogno della spontaneità del Bambino, oppure
si deve valutare criticamente la realtà. La nostra serenità interiore, e di
conseguenza il rapporto che abbiamo con l’ambiente esterno, dipendono dallo
sviluppo equilibrato dei tre Stati dell’Io.
Il Bambino è lo Stato dell’Io che ci appartiene dalla nascita, rappresenta la
nostra parte infantile.
Si può immaginare come un
archivio, in cui risiede l’infanzia che abbiamo vissuto, con le
caratteristiche, i ricordi, le sensazioni, sia positive sia negative, e tutti i
comportamenti collegati. Esso è pertanto la sede dei bisogni , degli
atteggiamenti e dei comportamenti della nostra infanzia, legati alle esigenze
psicobiologiche più profonde. La soddisfazione o l’insoddisfazione verso un
oggetto, introiettata e memorizzata come valore positivo o negativo,
determinerà il prodotto della vita sentita che potrà esplicitarsi in creatività
e fantasia, o, di contro, in frustrazione e senso di colpa. Lo stato dell’Io
Bambino viene formandosi dagli 0 ai 5 anni di vita. Nel Bambino ci sono tutte
le disposizioni:
·
impulso ad agire
·
capacità di godere
·
creatività
·
curiosità
·
emozioni e loro
espressione
·
invidia-gelosia
·
manipolazione
Una personalità sana ha bisogno di tutti e 3 gli
Stati dell’Io.
Hai bisogno dello Stato dell’Io
A per la soluzione dei problemi del qui ed ora, esso ti permette di affrontare
la vita in modo efficace e competente. Per adeguarti bene alla società hai
bisogno delle regole che hai imparato e immagazzinato nello Stato dell’Io G.
Infine hai bisogno di accedere, tramite lo Stato dell’Io B, alla spontaneità,
alla creatività e alla capacità intuitiva proprie dell’infanzia.
Il diagramma degli Stati
dell’Io è raffigurato con tre cerchi, uno sull’altro: il Genitore in alto,
l’Adulto al centro, Il Bambino in basso. Da questo modello prende nome la teoria del GAB. Essi consentono
una percezione unitaria della persona, poiché non si escludono, ma vengono
piuttosto a legittimare tre diversi “stili” di sentimenti, affettività e
comportamenti da utilizzare nelle diverse situazioni del quotidiano, così da
permettere il fluire di percezioni e atteggiamenti, determinati dagli
innumerevoli stimoli esterni ed interni.
Il Genitore l’ Adulto e il
Bambino, si suddividono ulteriormente : Il Genitore si scinde in Affettivo e
Normativo, il Bambino in Adattato e Ribelle. L’adulto non è suddiviso. Stephen
Karpmann ha evidenziato in ogni stato dell’Io aspetti positivi e aspetti
negativi.
Il Genitore Affettivo registra tutto quello che
fecero e dissero i genitori, o chi per loro, quando si prendevano cura di noi:
ad esempio carezze, comportamenti protettivi, rimproveri.
Determina il comportamento verso i figli e si
divide in positivo e negativo.
Il Genitore Affettivo positivo
comprende i comportamenti che proteggono e sviluppano il benessere altrui,
senza prevaricazioni ed imposizioni. Il tono di voce è dolce, i gesti sono
attenti e rispettosi. Le parole indicano comprensione e affetto. I messaggi
sono di fare piuttosto che di non fare. Il prendersi cura degli altri deriva
da un autentico rispetto per la persona aiutata. Ad esempio, la mamma che aiuta
il figlio nei compiti a casa.
Il Genitore Affettivo negativo
raggruppa i comportamenti che derivano dalla poca considerazione della persona
da aiutare, tende infatti ad essere iperprotettivo. si
sostituisce agli altri facendo le cose al posto loro quando non gli è richiesto
e non è necessario frenando perciò lo sviluppo di colui che intende aiutare Il
padre ansioso che telefona al figlio ogni mezz’ora, un collega che toglie un
progetto di mano dicendo: “Dai qua, ci penso Io”.
Il Genitore Normativo racchiude l’insieme di
regole, leggi e comportamenti da tenere nella vita e con gli altri. Raccoglie
le informazioni necessarie alla crescita: queste possono andare dal “come si
attraversa la strada” a come, in generale, s’apprende a stare al mondo.
Si tratta di un archivio ricchissimo di esempi
dei genitori, di proverbi e saperi tramandati di generazione in generazione.
Poiché le informazioni sono datate, non sono tutte necessariamente utili o
aggiornate, e può capitare che non siano coerenti.
Si consideri il caso in cui una madre dice ai
figli di essere gentili con i vicini, salvo poi trattarli con arroganza ella
stessa: questa informazione crea confusione, perciò viene ignorata.
Il Genitore Normativo
positivo, utilizza le regole per promuovere la crescita e il
benessere dell’individuo. Si può immaginare un fratello maggiore che, con
pazienza, insegni al minore ad andare in bicicletta.”
Il Genitore Normativo
negativo
parte da una visione del mondo ristretta e pessimista, che sminuisce le
capacità altrui e spesso ricorre al sarcasmo. Un direttore d’azienda che
rifiuta a priori tutte le proposte di innovazione dei propri dipendenti si
trova nello Stato di Genitore Normativo.
Il Bambino Libero simboleggia l’istinto e la spontaneità degli Stati dell’Io.
Si tratta della parte più “antica” della nostra
personalità (compresa appunto nell’Archeopsiche), e comprende le
caratteristiche positive e negative dei bambini: ad esempio, fantasia,
allegria, spensieratezza, volubilità, egoismo.
Anche il Bambino Libero si scinde in positivo o
negativo.
Il Bambino Libero positivo è
felice, simpatico, pieno di inventiva, semplice, spontaneo. Secondo Berne il
bambino libero positivo racchiude altre immense risorse e capacità come
l’intuito e la creatività: egli attribuisce a questa parte il nome di “Piccolo Professore” (PP).
Il PP funziona come un radar, conferendogli la
capacità di avvertire e di captare quelle sfumature di segnali che ci fanno
“sentire” le situazioni e le persone al di là delle nostre facoltà e percezioni
sensitive-sensoriali; significa capire e conoscere qualcuno e qualcosa guidati
dal nostro “Sesto Senso”, quello cioè dell’intuizione e dell’istinto. Grazie
alle capacità creative del nostro PP, possiamo anche inventarci auto
rassicuranti fantasie che ci permettono di sopportare meglio una situazione
stressante e dolorosa.
Il Bambino Libero negativo può
comprendere l’impulsività, i capricci, la scarsa concentrazione; può
danneggiare se stesso e gli altri non tenendo conto della realtà.
Es.: “Facciamo una corsa!” (su una strada pericolosa
alterati dall’alcool)
Eric Berne sostiene che la maggior parte degli
adulti si trova spesso nello Stato di Bambino Adattato.
Nella situazione originaria, il Bambino è il
destinatario dei messaggi che provengono dal Genitore. In questo caso, il Bambino Adattato è un risultato delle regole imposte dal
Genitore Normativo.
Si definisce Adattato perché implica un
confronto, una mediazione tra le esigenze interne e quelle esterne, tra i
comportamenti appresi e quelli istintivi.
Il Bambino Adattato è l’insieme delle reazioni
alle imposizioni del Genitore Normativo: in base all’accettazione o meno di
queste imposizioni, esso può essere positivo o negativo.
Il Bambino Adattato positivo ha
accolto le regole, le ha interiorizzate, le ha trovate coerenti e utili; acquisisce
ed utilizza automaticamente quei comportamenti che gli permettono di
raggiungere i suoi scopi, ottiene quello che vuole senza disagio per sé e per
gli altri, e risparmia un bel po’ di energia mentale.
Ad esempio, il bambino che in famiglia legge la
poesia di Natale e riceve gli applausi, o, da adulti, il saper stare a tavola
ad un pranzo importante. Il soldato che saluta l’ufficiale, così da non essere
punito.
Nel caso in cui le regole non piacciono, o sono
contraddittorie, o la fonte da cui provengono non è degna di fiducia., ecco che
entra in scena il Bambino Adattato negativo.
Egli reagisce
rifiutandosi di adattarsi ai messaggi genitoriali, anche se ciò sarebbe
ragionevole: si comporta perciò in maniera lesiva, poiché ha imparato dall’esperienza
che così facendo attira l’attenzione degli altri.
Ad esempio: Il soldato che non saluta il suo
superiore e poi si chiede quale sia il motivo della sua punizione.
Ci si può ribellare in maniera più sottile:
dimenticando, procrastinando, facendo piccoli errori, i capricci, mettendo il
broncio, definendosi, autoaccusandosi, sentendosi confusi o arrabbiati.
Questo Stato si chiama anche Bambino Ribelle.
Gli Stati dell’Io non sono attivati tutti
contemporaneamente; pensiamo,sentiamo, agiamo con lo Stato dell’Io che in un
determinato momento prende il comando sugli altri.
Osservando il comportamento dell’individuo si
può individuare quale parte dello stato dell’Io si sta utilizzando, ecco perché
queste suddivisioni funzionali possono essere chiamate
descrizioni comportamentali.
L’ individuo percepisce come “ Sé reale” lo
Stato dell’Io che in una data situazione predomina sugli altri.
In medicina e nel counseling sarebbe auspicabile
che le transazioni avvenissero tra gli Stati dell’Io Adulto anche se questo
difficilmente si verifica perché sia il paziente che il cliente soprattutto
all’inizio si trovano il primo in uno stato di sofferenza e di malattia e
quindi anche di dipendenza rispetto al medico e il cliente si trova in uno
stato di incongruenza avendo interiorizzato un copione di vita non costruttivo.
Berne ha definito il
copione “un piano di vita che si basa su di una decisione presa durante
l’infanzia, rinforzata dai genitori, giustificata dagli avvenimenti successivi,
e che culmina in una scelta decisiva”.La teoria del copione sostiene che il
bambino redige un piano specifico della propria vita, sotto forma di reazione
drammatica che ha un inizio, un punto di mezzo e una fine. All’età di circa
quattro anni, le parti essenziali della trama sono già state decise. A
sette anni la storia è completata nei dettagli
principali. Nella preadolescenza si dà qualche ritocco o si aggiusta qualche
particolare. Durante l’adolescenza si rivede il copione e lo si aggiorna con
aderenza alla realtà del momento.
Il copione è decisionale: si
basa su una decisione presa nell’infanzia, è pertanto il bambino che decide
quale sarà il suo piano di vita. Ne consegue che bambini allevati dagli stessi
genitori e nel medesimo ambiente possono decidere piani di vita completamente
diversi.
Le prime decisioni del copione derivano dalle
emozioni e dall’esame di realtà del bambino, e vengono prese prima ancora che
egli abbia la capacità di parola. Il copione è rinforzato dai genitori:
attraverso messaggi non verbali e verbali. Tali messaggi
di copione che comprendono le ingiunzioni, i permessi, le parole d’ordine (le
spinte) costituiscono la struttura di riferimento in risposta alla quale il bambino
prende le principali decisioni di copione. E’ in tale modo che i genitori possono
esercitare una forte influenza sulla decisione di copioni di un bambino.
Giustificata dagli avvenimenti successivi: la
vita di ogni persona si presenta, pur con il variare delle situazioni
specifiche, con un’identità di fondo derivante dal fatto che gli avvenimenti,
le persone, i problemi che si incontrano nel corso della vita vengono
affrontati e gestiti sempre in modo abbastanza similare, basandosi sulle convinzioni
prese durante l’infanzia. Spesso non facciamo altro che interpretare la realtà
all’interno della nostra struttura di riferimento, cosicché essa possa giustificare
le decisioni del copione prescelto. Ognuno di noi svolgendo il proprio copione
ricalca le orme del passato, ripropone schemi e modelli di comportamento
appresi, replicandoli nel “qui ed ora” in modo automatico e spesso
involontario.
Il copione culmina in una scelta decisiva
(finale): la scena finale è detta tornaconto del
copione, ed è stata scelta quando il bambino piccolo ha scritto la
storia della propria vita.
Il carattere di ripetitività
del copione ci rivela che, quando da adulti si realizza il copione,
senza alcuna consapevolezza, si scelgono dei comportamenti che permettono di
raggiungere il tornaconto del copione prescelto. Quando le decisioni di copione
permettono di affrontare bene la realtà, si ha un copione
costruttivo detto vincente. È il copione delle persone che riescono a
vincere nella propria vita in senso completo, che cadono ma si rialzano, che
realizzano gli obiettivi prefissati nel pieno rispetto dei propri bisogni.
Si ha, invece,un copione
banale o non vincente quando le persone tendono ad accontentarsi di
vivere all’ombra dei vincenti e le decisioni prese non gli permettono sempre di
affrontare bene la realtà in modo completo e di sentirsi gratificati.
Un tipico copione banale femminile è quello
della casalinga tutta dedita ai lavori di casa: questa utilizza prevalentemente
il suo Genitore Affettivo con i figli e con il marito, non utilizza il suo
Adulto tranne che per le incombenze domestiche, né il suo Bambino per entrare
in vera intimità con gli altri.
Un copione maschile è quello dell’uomo d’affari
che lavora indefessamente agendo quasi esclusivamente con il suo Adulto ed evitando
le intimità ed il contatto con il suo Bambino.
Si ha un copione
perdente quando le decisioni di copione non aiutano a
gestire efficacemente la realtà e si ricevono solo
riconoscimenti negativi. È tipico delle persone disilluse che non credono in
nulla e non hanno fiducia in nessuno.
Ognuno in base al tipo di copione interpretato
assume una propria specifica “posizione di vita o
esistenziale” che rispecchia il grado di giudizio, stima, accettazione
che abbiamo di noi stessi e degli altri.
Il termine di maglietta
è usato per indicare la caratteristica generalmente non verbale, che
contraddistingue l’essere umano e che invoglia gli altri a dare una determinata
risposta. Ad esempio una persona che cammina
con le spalle curve e con una faccia ansiosa incontrerà o un carnefice che
vuole torturarla o un Salvatore che vuole salvarla.
La maglietta porta sul davanti un motto che è
quello che noi consapevolmente vogliamo che il mondo veda. Dietro c’è un messaggio
segreto al livello psicologico, ed è quello che determinerà chi sceglieremo nei
rapporti.
Ogni posizione di vita è incentrata sul
principio del sentire noi stessi e gli altri OK o non OK.
Essere Ok significa essere capaci di vivere il
rapporto con se stessi e con gli altri, in modo libero, autonomo, positivo e
spontaneo, e di affermare se stessi nel pieno rispetto degli altri. Gli
atteggiamenti in relazione a sé e agli altri sono fondamentalmente quattro:
1) IO NON SONO OK - TU SEI OK
2) IO NON SONO OK - TU NON SEI OK
3) IO SONO OK - TU NON SEI OK
4) IO SONO OK - TU SEI OK
1) Il primo è l'atteggiamento della primissima
infanzia; in esso è presente un aspetto positivo, dato dalle carezze. L'aspetto
negativo è l'accumularsi, nel bambino, di stati d'animo negativi su di sé:
egli, a causa della sua piccolezza e debolezza, si considera inferiore agli
adulti che lo circondano. Questo discorso può essere rapportato ad un adulto,
che si sente alla mercé degli altri e ha un grande bisogno di carezze o di riconoscimento.
2) Consideriamo ora il secondo caso: tutti i
bambini, superata l'infanzia, inizialmente giungono alla prima conclusione. Se,
subito dopo, cioè dopo il primo anno di vita, incontrano troppe difficoltà,
cessano le carezze e aumentano le punizioni, allora può accadere che ricadano
in questo secondo caso. Un individuo che assume questo atteggiamento, si
arrende, si chiude in sé e arriva a rifiutare lui stesso le carezze.
3) Nel terzo caso, avremo a che fare con un
bambino che, trattato in modo brutale, a lungo, dai propri genitori, assume di
essere OK; ma da chi potrà ricevere le carezze, se i suoi genitori sono
ritenuti NON OK? Forse, proprio da se stesso e dalle proprie capacità di
reazione. Una persona che mantenga tale atteggiamento, è vittima della mancanza
di carezze: può essere addirittura un criminale.
4) Nel quarto atteggiamento è riposta la
speranza. I primi tre sono inconsci poiché appartengono ai primi stadi
dell'infanzia; questo, invece, presume una decisione cosciente e si basa sulla
fiducia.
E'
importante dire che "non si assume un nuovo atteggiamento lasciandosi
trasportare dalle cose, bensì decidendo di adottarlo". L'unico modo di
diventare OK consiste nel rivelare la condizione infantile che sta alla base
dei primi tre atteggiamenti e dimostrare che il comportamento attuale non è
altro che la loro perpetuazione.
Il copione di vita, dunque, può essere cambiato,
rideciso e riscritto se l’uomo recupera la propria autonomia e si libera dai
condizionamenti interni ed esterni imposti ed autoimposti, dandosi il permesso
di essere realmente se stesso.
Il Counseling ha come obiettivo quello di
promuovere la chiusura di un copione non costruttivo e di avviarne uno migliore
stimolando l’autonomia del cliente che può essere raggiunta attraverso la
riconquista della consapevolezza, della spontaneità e dell’intimità.
Il
Counselor pertanto, a seconda della situazione potrà esprimere e fare entrare
in risonanza i suoi stati dell’Io con quelli del cliente. Con ciascuno stato
dell’Io il Counselor offre un dono al cliente:
·
lo stato dell’Io Genitore offre Protezione al cliente, dando permessi costruttivi che
favoriscono la crescita psicologica ed emotiva del cliente.
·
Lo stato dell’Io Adulto: offre il Permesso lascia il cliente libero di scegliere e di
liberarsi da qualsiasi condizionamento del passato
·
Lo stato dell’Io Bambino dona la Potenza che consiste nell’esprimere creatività ed
entusiasmo in modo che il cliente riesca nuovamente a contattare le proprie
emozioni ed i propri bisogni in modo spontaneo.
Il
Counselor fornendo le tre P: permesso protezione e potere si propone come
obiettivo quello di mettere il cliente nelle condizioni di procurarsi da solo
il permesso, la protezione ed il potere.
Attualmente
la medicina non ha una visione olistica dell’uomo e quindi antropocentrica ma
organocentrica cioè il medico guarda la malattia, guarda l’organo. Ha estrema
difficoltà a considerare nel suo insieme la persona.
Il Medico, Counselor, al contrario considera
il paziente nella sua globalità e attraverso la congruenza e la spontaneità fa
sentire il “paziente Ok come persona” garantisce protezione al paziente, ma al
tempo stesso pur consigliandolo lo lascia libero di scegliere un percorso
terapeutico al posto di un altro.
Talvolta
proprio perché il paziente è un individuo sofferente si trova in uno stato di
incongruenza agisce con lo Stato dell’Io bambino e ricerca nel Medico una
figura Genitoriale normativa che lo rassicuri e lo indirizzi verso una cura.
Attraverso
l’empatia, e una comunicazione aperta e spontanea il Medico, in particolare
colui che ha acquisito competenze in Counseling, dovrebbe reindirizzare il
paziente verso uno Stato dell’Io adulto affinchè il rapporto si svolga alla
pari ed il paziente possa sentirsi autonomo e padrone del proprio destino ma
supportato e preso in cura dal medico.
Come
nel Counseling, medico e paziente fanno un percorso insieme e l’aiuto dato dal
medico al paziente è dato anche dalla relazione che si instaura tra i due.
La
differenza risiede nel fatto che il medico oltre
alla relazione deve svolgere un’azione: o tramite la somministrazione di
farmaci oppure agendo chirurgicamente.
In
medicina, dunque, da un lato c’è l’aspetto legato alla relazione e
quindi l’aiuto attraverso la relazione.
Dall’altro lato c’è l’aiuto attraverso un atto,
attraverso un’azione.
In
conclusione, si può dire che la dimensione relazionale completa ed integra .il
lavoro del medico consentendogli di svolgere egli stesso un percorso di
crescita che lo arrichisce spiritualmente ed umanamente.
Descrizione del la
figura del medico nella tradizione medica tibetana
“… il medico deve essere dotato di una
mente analitica, esercitata nello studio e provvista
di una certa facoltà intuitiva; deve
essere disposto a curare ogni paziente come fosse la propria madre, deve essere
calmo nel corpo, nell’eloquio e nella mente, la
calma del corpo si manifesta
nell’accurata attenzione nel predisporre le medicine; la
calma nell’eloquio ha lo scopo di
risollevare il morale del paziente, di farlo rilassare e metterlo a suo agio; la
calma mentale infine consiste nel rimanere
vigile e attento mentre si applica alla diagnosi e alla terapia del male …”.
La
parola deontologia è stata coniata
dal filosofo J. Bentham (1748-1832) per indicare lo studio e l'elencazione di un particolare gruppo di doveri inerenti una
determinata professione. Usato come aggettivo della parola
"etica" ("etica deontologica"), designa, invece, un
particolare tipo di etica basata sulla nozione di dovere assoluto, che si
contrappone ad altre etiche basate su concetti, ad esempio, di felicità o di
virtù. La più nota etica deontologica in ambito Occidentale è quella formulata
da Kant. Il termine etica è più
vasto di quello di deontologia, e comprende non solo lo studio dei doveri, ma anche delle scelte pratiche
degli esseri umani, considerate come la risultante di un concorrere
e confliggere di differenti beni, diritti, doveri, obbligazioni, cercando di
dare basi razionali alle scelte che devono essere effettuate, o di mostrare le
ragioni o la mancanza di ragioni di queste scelte. L'etica di conseguenza non è
direttamente interessata alle basi psicologiche del comportamento umano
tuttavia la domanda centrale a cui l'etica cerca di rispondere non è quali siano
le condizioni psicologiche in base alle quali si sceglie un bene piuttosto che
un altro, ma se esistono fondamenti razionali al di là delle preferenze
psicologicamente determinate per scegliere un bene piuttosto che un altro.
Il
punto essenziale è che il modo in cui gli individui costruiscono il loro mondo
morale interno è assolutamente irrilevante nel giudicare la validità degli
argomenti utilizzati per giustificare tale mondo morale. Non tutte le scelte
sono naturalmente di pertinenza etica, lo sono piuttosto quelle che concernono
ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Scegliere tra un gelato alla vaniglia ed uno al cioccolato può essere, ad
esempio, un'impresa ardua, ma non riguarda l'etica, quanto il gusto. Al
contrario scegliere tra dilapidare tutti i propri risparmi o donarli, invece,
in beneficenza è una scelta etica, cioè riguarda un giudizio morale attorno a
ciò che è giusto che un essere umano faccia o non faccia. L'etica medica riguarda dunque ciò che è bene e ciò che male
in relazione alla professione medica. L'etica medica tradizionale, ai
suoi inizi, non era un'etica deontologica, ma era soprattutto un’etica delle
virtù, cioè un’etica che descriveva le caratteristiche che doveva possedere un
medico per essere un buon medico. Le virtù che il medico principalmente doveva
possedere erano la compassione, la dedizione, l’amore per l’umanità. Tuttavia,
verso la metà dell’Ottocento le nascenti società professionali cercarono di
definire uno standard etico - professionale comune. Per far ciò si rivolsero ad
una tradizione antica che risaliva da un lato ai circoli medici pitagorici
dell’antica Grecia dall’altro alla prima cristianità. Sia nei circoli
pitagorici sia nella prima cristianità veniva attribuito al medico un particolare
carisma per cui egli si poneva in una posizione “quasi sacerdotale”. Un ethos
cristiano-ipprocratico (riletto alla luce dell'umanitarismo scientifico
ottocentesco) costituì dunque la base dei nascenti ordini professionali medici.
Si affermò, cioè, il concetto che un medico è definito
non solo in base a ciò che sa (alla sua scienza) ma anche in base a ciò che
uniforma il suo agire (la sua coscienza): di scienza e coscienza
divennero garanti gli Ordini e le società scientifiche, assicurando al paziente
non solo uno standard scientifico ma anche uno standard etico. Il medico
divenne, così, una sorta di sacerdote laico, simbolo di un amore per l'umanità
tollerante e compassionevole, illuminato dal sapere della scienza. Questo
modello ha retto la professione medica, sino alla metà del Novecento, entrando
in crisi, pressoché in tutto il mondo, negli anni sessanta e settanta del
nostro secolo. Dalla crisi del modello di "medico virtuoso", e da una
parallela diffusa sfiducia nei confronti del progresso scientifico come
inevitabile portatore di progresso sociale e umano, nacque la moderna bioetica.
Infatti,
verso la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 70 si sviluppò un movimento
di critica sociologica alla medicina rivolto soprattutto contro la
"medicalizzazione" della società, cioè contro ogni tentativo di
trasformare conflitti sociali e culturali in questioni medico-biologiche.
Questo movimento si intrecciò variamente con il sorgere delle prime
organizzazioni di pazienti e con una nascente critica alla medicina tecnologica
che si sviluppò in ambito filosofico e teologico (si pensi a M. Focault ed I.
Illich, ad esempio).
Ben
prima che la stessa parola "bioetica" fosse inventata, film quali
"L'arancia meccanica" o "Qualcuno volò sul nido del
cuculo", divennero simbolo di una rivolta contro lo strapotere medico e
contro la crescente disumanizzazione introdotta dalle nuove tecnologie.
Il
termine bioetica, dall'unione di
bios (vita) ed ethos (etica), fu utilizzato la prima volta dall'oncologo
statunitense V. R. Potter nel 1971, ma la definizione classica è quella che si
trova nella Encyclopedia of Bioethics, un’opera collettiva pubblicata nel 1978:
"bioetica è lo studio sistematico della condotta
umana nell'area delle scienze della vita e della cura della salute, quando tale
condotta viene esaminata alla luce dei valori e dei principi morali"
(Reich W. T., 1978). In una prima fase l'attenzione della bioetica si rivolse
soprattutto ai diritti dei pazienti e fu tutta focalizzata sul rapporto duale
medico e paziente. La bioetica definì, infatti, alcuni principi che potessero
divenire regole generali a garanzia soprattutto dei pazienti. La grande paura
era quella di una società espropriante, custodialistica e paternalistica, che
sottraesse al cittadino il diritto di disporre del proprio corpo e della
propria salute.
Nel
1979 la Commissione Belmont, istituita dal presidente degli Stati Uniti per
cercare di definire un minimo etico comune, enunciò i famosi quattro principi della bioetica:
1.
Rispetto dell’autonomia del paziente;
2.
Impegno ad agire per il suo bene;
3.
Impegno a non nuocere;
4.
Rispetto di un criterio di giustizia
nella distribuzione delle cure.
Questi quattro principi, nell'intenzione
dei loro ideatori, costituirebbero il minimo comun denominatore di ogni etica
(laica, religiosa, deontologica, utilitarista, ecc.) applicata alla medicina e
dovrebbero quindi aiutare a fondare un linguaggio comune alle diverse posizioni
morali.
Verso la metà degli anni 80
nacque tuttavia, in molti studiosi, la consapevolezza che la gran parte delle
questioni bioetiche aveva in realtà a che vedere con l'intera comunità
piuttosto che con il singolo individuo e che la medicina stessa era sempre, in
definitiva, medicina di comunità. Così, se pure rimaneva giusto difendere i
"principi" della bioetica, essi correvano il rischio di rimanere solo
astratti enunciati, se non si articolavano nel mondo della sanità quale esso
concretamente era. L'interesse si spostò quindi verso questioni di politica
sanitaria, e studiosi come D. Callahan richiamarono, tra i primi, l'attenzione
al problema della giustizia nell'allocazione delle risorse e ai problemi etici
in economia sanitaria (Wikler D, 1997).
Nel
1997, infine, il Consiglio d'Europa ha portato alla firma dei ministri la
"Convenzione Europea sulla Biomedicina e i Diritti Umani", una carta
dalla lunga e complessa genesi, che costituisce il primo documento interstatale
sulla bioetica con valore obbligatorio per tutti gli Stati che lo
ratificheranno. La bioetica, che si era sempre occupata di diritti negativi,
cioè di diritti di libertà (il diritto a scegliere, il diritto a rifiutare le
cure), è giunta così a occuparsi di diritti positivi, cioè diritti che
implicano obbligazioni da parte di altri, ed, in particolare, da parte degli
Stati.
Possiamo,
pertanto riassumere che Dovere del
medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell'Uomo
e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della
persona umana, senza distinzioni di età, di sesso, di etnia, di religione, di
nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace e in tempo
di guerra, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali
opera.
La
salute, definita nella Costituzione dell’OMS, come "stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non
semplice assenza di malattia", viene considerata un diritto e come
tale si pone alla base di tutti gli altri diritti fondamentali che spettano
alle persone.
Analogamente
il medico deve sapere, saper fare, saper
essere. Ai primi due obiettivi provvede (o almeno dovrebbe provvedere)
l'università a livello sia culturale (didattico) sia esperienziale (tirocinio).
Per saper essere medico, nell'accezione odierna, occorrono ulteriori dosi di
formazione culturale (informazione) e di formazione esperienziale alla
relazione con il paziente.
Il
concetto di sapere, saper fare, saper essere è una delle principali
caratteristiche che deve avere un Counselor per cui se durante la sua
formazione il medico riuscisse a seguire un percorso di studi tali da acquisire
competenze in tal senso potrebbe aggiungere alla sua pratica professionale
quell’ esperienza relazionale tale da riuscire a contribuire non solo al
benessere fisico ma anche emotivo e sociale del paziente; infatti il benessere fisico si può perseguire attraverso la
conoscenza dell’arte medica in ogni sua forma ed è quindi legata al sapere e al saper fare del medico, il benessere emotivo e sociale può essere perseguito
solo attraverso la relazione con il paziente e non può prescindere da esso,
dalla conoscenza della sua persona e del suo mondo e quindi legata al “saper essere” del medico in termini di accoglienza,
empatia, comunicazione verbale e non verbale e conoscenza del pensiero umano.
Il tema
del Counseling medico fu ispirato dal medico e psicoanalista inglese Balint.
Quanto emergeva dalla sua esperienza era che la competenza tecnica del medico,
sicuramente necessaria, non bastava. Anzi, in alcune circostanze poteva
addirittura essere di ostacolo alla costituzione di una buona relazione
medico-paziente, limitando alcuni aspetti essenziali del processo di cura. Da
allora l’esperienza del Counseling medico si è sviluppata e ampliata,
coinvolgendo argomenti di carattere filosofico e bioetico, psicologico e
culturale.
Il “Counseling medico” indica le abilità e le
qualità necessarie in ambito sanitario per facilitare la comunicazione nella
situazione di cura; prevede, inoltre, diagnosi fisica,
prescrizione di farmaci, esami specialistici, ricoveri ed è di pertinenza
esclusiva del medico.
Ha la
funzione di stimolare l'anamnesi esistenziale e relazionale del vissuto del
paziente (non solo la malattia ma anche il malessere), la co-costruzione tra
medico e paziente di una buona alleanza terapeutica, del significato del
vissuto di malattia e l'apertura progressiva della biomedicina ai contributi
delle medicine complementari, naturali e del quotidiano.
Il
counseling medico è una relazione di aiuto, all’interno della quale il paziente
si sente ACCOLTO, ASCOLTATO, COMPRESO, ORIENTATO e finalmente CURATO.
Il
processo di guarigione passa necessariamente attraverso l’atteggiamento del
medico che accoglie, ascolta, comprende, proprio nel senso di “prendere insieme”
al paziente il senso della sua malattia (la sua storia) e riorganizzarla in
funzione di un cambiamento. Il cambiamento altro non è che il passaggio da uno
stato iniziale a uno successivo ed in questo senso coincide perfettamente con
la terapia.
Il Counseling
medico risulta pertanto una delle componenti fondamentali nel rapporto
medico-paziente e non può prescindere da esso. In questo quadro, l’ipotesi di
fornire al personale sanitario strumenti di counseling può rappresentare un
modello di sviluppo delle professioni sanitarie per riavvicinare gli individui
e i loro mondi della vita quotidiana alle strutture sanitarie.
L’aspetto
comunicativo sembra la principale lacuna di cui soffre il mondo della salute e
della malattia ed è proprio questo aspetto la principale risorsa del Counselor.
Sono numerosi gli esempi di questo importante gap relazionale: l’aumento
esponenziale delle denuncie di malpractice; l’aumentata prassi
dell’auto-cura; la consuetudine dei cittadini a cambiare spesso medico, ecc.
Tra le principali ragioni di questi fenomeni sembra che l’insoddisfazione
dovuta alla qualità dell’incontro relazionale umano tra operatori sanitari e
pazienti sia la principale. Questo accade principalmente perché i “linguaggi”
di queste due categorie appaiono sempre più distanti e incomprensibili. Quando
viene richiesto agli operatori sanitari di indicare le principali difficoltà
che riscontrano nella comunicazione con i pazienti, la maggior parte di essi fa
riferimento alla chiarezza, alla comprensibilità del messaggio inviato,
difficoltà scaturente spesso da un’iper-tecnologizzazione del linguaggio
bio-medico, il quale sembra perdere di vista il vero referente delle sue
attività, l’essere umano sofferente, il quale viene spesso ridotto all’organo
malato o nei casi migliori incasellato in fredde linee guida, non viene
ascoltato e non viene analizzata la sua narrazione di sofferenza, perdendo così
informazioni fondamentali per intervenire sulla patologia.
Il linguaggio sembra essere il primo ostacolo che disturba la reciproca
comprensione, spesso connesso con l’uso e l’abuso di termini tecnici. Spesso
l’incomprensione è connessa alla competenza linguistica dell’ascoltatore che
può incidere notevolmente sulla comunicazione. L’impiego di termini difficili e
di uso non comune può rendere difficile la comunicazione: parole come
“accanimento terapeutico”, “posologia”, “cronicità”, “neoplasia”, “angiografia”
non sono necessariamente presenti nel dizionario personale di chiunque; questa
difficoltà viene inoltre accentuata dalla bassa scolarizzazione della maggior
parte dei malati dei nostri tempi, infatti, moltissime ricerche epidemiologiche
indicano il massiccio aumento di patologie cronico-degenerative, le quali hanno
come bersagli privilegiati gli anziani e gli indigenti, categorie sociali
generalmente poco acculturate e scolarizzate. Il rischio di incomprensione è in
questi casi accentuato dal fatto che le persone sovente si vergognano di
chiedere delucidazioni nel timore di sembrare ignoranti, e il silenzio fa
pensare a chi parla di essere stato capito.
Il
rischio di una comunicazione distorta e inefficace esiste anche quando si
utilizzano termini di uso comune, poiché non è detto che il significato a esse
attribuito sia il medesimo per ambedue gli interlocutori. Il senso che uno dà a
una parola è frutto della sua storia personale, della cultura a cui appartiene,
delle emozioni che a quei termini si collegano, del lessico familiare o
amicale.
Ad
esempio, la parola “sfogo” ha, nel linguaggio comune, una connotazione negativa,
essendo spesso riferita a una manifestazione esteriore di un malessere
interiore: sfogo epidermico di un’alterazione interna al corpo; sfogo di pianto
per un dolore interiore; etc; per il Counselor uno sfogo del cliente può
essere un indizio che si và nella direzione giusta nella relazione di aiuto,
spesso esplicita la riuscita della connessione empatica; in una relazione
amicale lo sfogo è sintomo di confidenza. Questo esempio mette in evidenza come
il significato denotativo di un termine non deve essere assunto in maniera
semplicistica e veloce, ma deve essere contestualizzato ed esplorato in
profondità, nel tentativo di cogliere tutti gli eventuali significati
attribuiti, dal paziente.
La
distanza tra i significati è ancora più evidente quando si utilizzano figure
retoriche, metafore, giochi di parole o battute di spirito: una metafora
adeguata e condivisa dai partecipanti alla comunicazione è spesso fondamentale
per definire concetti complessi, che richiederebbero pesanti parafrasi verbali,
ma non è sempre così e non è sempre facile riuscirci, infatti, anche in questo
caso, bisogna considerare il campo cognitivo dell’altro.
La
possibilità di fraintendimento ed equivoco è ancora più probabile quando si
formulano battute umoristiche: a volte si utilizzano per cercare di
sdrammatizzare una situazione difficile, ma non di rado avviene che l’altro si
senta deriso e preso in giro. La prudenza e la cautela sono in questi casi
d’obbligo, tanto più se si ignora del tutto il significato che l’altro o gli
altri danno alle parole e ai concetti; e del resto nulla è più imbarazzante di
una battuta che suscita, anziché riso o allegria, una reazione di gelo, di
chiusura o di difesa.
Un
medico-counselor, avendo sviluppato delle capacità relazionali più spiccate, dà
estrema importanza all’umorismo nella relazione
d’aiuto. Non si può, infatti, non tener conto che l’umorismo, con il
suo legame con l’emotività e l’istintualità dell’essere umano, è parte delle
relazioni interpersonali ed elemento pregnante della cultura di ogni popolo.
Come già ebbe a dire Klüver, la vita intera sembra essere un susseguirsi di
barzellette, di cui spesso non riusciamo a riconoscere l’aspetto umoristico (in
Bateson 1953, pag. 22). La comicità è dentro la vita e con la vita entra anche nella
relazione tra gli individui.
È molto
importante ridere con l’altro e mai ridere dell’altro e un’impostazione che
aiuta a non uscire dall’eticità della relazione e ridere per primi di se stessi
e della propria onnipotenza.
I limiti tra umorismo ed ironia, talvolta,
sono estremamente permeabili,per cui tale facoltà va usata con grande prudenza
e dopo avere acquisito una certa esperienza relazionale, ed una buona alleanza
terapeutica con il paziente; anche se l’umorismo stesso può contribuire
migliorare esso stesso l’alleanza terapeutica.
Stimolare
l’umorismo nel paziente innesca una serie di emozioni vitali come il piacere e
il sentirsi vivi e di conseguenza alimenta la speranza di guarigione. Inoltre
incrementa l’ossigeno ai polmoni, aumenta la resistenza cardio-polmonare,
migliora la circolazione sanguigna, fa diminuire la produzione di cortisolo e
soprattutto potenzia il sistema immunitario stimolando la produzione di
adrenalina, dopamina e beta-endorfine, analgesici endogeni. Tutte condizioni
che potenziano qualsiasi cura prescritta dal medico
Anche
l’utilizzo di numeri per veicolare un’informazione al paziente, per indicare la
probabilità di sviluppare una data malattia o una complicanza può ostacolare la
comunicazione tra medico e paziente, per il crescente “analfabetismo numerico”
che colpisce molti individui indipendentemente dalla cultura e dalla posizione
sociale.
In
altri termini, davanti ai numeri molte persone bloccano ascolto e comprensione
e tendono a dimenticare rapidamente le cifre. E’ inoltre molto difficile per un
individuo, che si percepisce come una singola unità, identificarsi con una
percentuale. Questo per ricordare che i numeri nella
comunicazione vanno usati solo se assolutamente necessario e facendo
attenzione che quanto diciamo abbia davvero senso per l’altro. L’uso
eccessivamente disinvolto di numeri, percentuali, valori soglia e così via può
rendere il messaggio oscuro e produrre inoltre malintesi.
Un
altro aspetto da considerare e che spesso le cose ritenute importanti non sono
necessariamente le stesse per l’uno e per l’altro degli interlocutori. Se le
priorità non coincidono, la comunicazione si fa difficile e succede spesso, in
questi casi, che il professionista, a cui appare chiaro, evidente, scientifico
che le informazioni che lui deve dare sono le più utili, le più vantaggiose per
il maggior benessere dell’altro, non tenga in considerazione ciò che per
l’interlocutore è invece importantissimo. Esplorare le
priorità dell’altro o degli altri prima di dare informazioni o indicazioni è
invece una mossa comunicativa fondamentale: se, infatti, l’altro avverte
che ciò a che a lui sembra importante non è preso in considerazione dal
professionista, semplicemente smette di ascoltare o assume un atteggiamento
ostile e pregiudiziale. La possibilità di instaurare una comunicazione efficace
e produttiva si interrompe sul nascere e tra i due lo scambio diventa più
improbabile, inoltre ricucire una divergenza creata dalla delusione è piuttosto
difficile. I pericoli di questo processo relazionale fallito sono molti: il
professionista può interpretarlo come accettazione e comprensione di quanto
dice, e non indagare oltre, scoprendo solo troppo tardi che le sue informazioni
e le sue prescrizioni sono cadute nel vuoto, quando il fenomeno della non-compliance
si è ormai strutturato provocando i suoi danni.
Un’altra
frequente causa di blocco della comunicazione, quindi di incomprensione e di
malintesi, riguarda l’accettabilità e la praticabilità delle informazioni e
delle indicazioni da parte di chi le riceve. Spesso i
professionisti della salute si dilungano in prescrizioni note e banali oppure
impraticabili, compromettendo la sintonizzazione del paziente il quale
crede di essere già informato al proposito, per cui smette di ascoltare.
All’interno di queste possibilità si possono presentare i seguenti esempi:
“fumare
fa male”
“mangiare
i grassi animali è nocivo”
“vai in
palestra”
“si
prenda momenti di pausa dagli impegni quotidiani”
“fai
regolare esercizio fisico”
“un
solo bicchiere di vino a pasto e non di più”
Queste
affermazioni, per quanto veritiere e fondamentali, vengono recepite come poco
interessanti e scontate, non stimolano l’attenzione dell’ascoltatore, il quale
si distrae e rischia di perdere indicazioni importanti. Questa situazione si
verifica soprattutto se la comunicazione non viene fatta in maniera congruente,
cioè se non c’è coerenza tra linguaggio verbale e non verbale, tra
comunicazione simbolica e narrativa, modulata in base alle caratteristiche dell’ascoltatore.
Spesso l’operatore sanitario utilizza lo stesso tipo di messaggio per tutti i
pazienti, dall’anziano al giovane, dal cardiopatico al dializzato; mentre ogni
messaggio andrebbe diversificato in base all’individuo e quindi diverso di volta
in volta, affinato di volta in volta dal medico che progressivamente diventa
più intuitivo e sensibile alle esigenze del paziente.
La
ricerca di un dialogo più profondo e aperto, di informazioni più adeguate,
accanto ad un coinvolgimento maggiore nelle decisioni riguardo ai provvedimenti
da prendere rende il paziente più collaborativo; che accetta più di buon grado
l’idea di abbandonare abitudini dannose come il fumo, l’alcool e di condurre
uno stile di vita più salutare.
Spesso il problema di un cattivo rapporto
medico-paziente risiede nella comunicazione; infatti, i pazienti si sentono
dire sempre le stesse cose, spesso si sentono dei numeri e non delle persone
perché non si considerano le loro specifiche situazioni, la loro sofferenza.
Dall’altro canto alcuni medici sono talmente stufi, sbrigativi, che dedicano
non più di due minuti a paziente con il risultato che il paziente è
insoddisfatto e soprattutto non segue le indicazioni che gli vengono date.
Un altro scoglio importante da tenere presente nella comunicazione
al paziente è l’accettabilità del messaggio, essa ha a che fare con i
principi dell’individuo, siano essi religiosi, culturali o etici: spesso la
persona capisce perfettamente il senso del messaggio, ma non può metterlo in
pratica perché non ne accetta le premesse. Se questo campo non viene esplorato,
il professionista può pensare di non essersi espresso con sufficiente chiarezza
oppure che l’altro si comporti in modo irragionevole. Esempi lampanti di questa
situazione sono l’impossibilità di praticare trasfusioni di sangue ai testimoni
di Geova o le difficoltà connesse all’accesso al corpo da parte di operatori
sanitari del sesso opposto a quello del paziente, situazione ricorrente con
individui eccessivamente ortodossi sia di religione cristiano-cattolica che
islamica.
Si fa
esperienza tutti i giorni della necessità di figure intermedie, di ponti tra
linguaggi diversi, di ruoli sfumati ispirati dalla multidisciplinarità e dalla
tolleranza, che cercano l’integrazione. Anche i ruoli consolidati come il
medico o l’infermiere si trovano a rendersi conto di questa necessità e
chiedono aiuto. In sanità il ruolo di esperto dei differenti linguaggi umani,
incarnato dal Counselor, comincia ad essere necessario, ed è un’esigenza
avvertita anche dai diretti interessati: gli studenti di medicina, i medici,
gli infermieri, i pazienti.
La
malattia e la salute sono universi complessi, in cui le diverse componenti si
intersecano e si influenzano a vicenda. La malattia non è solo “disturbo
fisico”, ma è anche “ruolo sociale”,
e anche “vissuto interiore”.
Il counselor gioca un ruolo perché comprende e fa
comprendere al medico il vissuto interiore del paziente, esplora sensibilmente
l’anima di quest’ultimo attraverso l’ empatia e un ascolto attivo. Infatti c’è
differenza tra corpo vissuto ed organismo. Il medico controlla fatti che di per
sé non hanno un significato di vita. Il medico vede il male, il paziente sente
il dolore, due cose diverse. Il dolore è un vissuto
soggettivo che il paziente narra, non coincide col male oggettivo che il
medico cerca. Il dolore eccita e contride il corpo e pervade la vita,
modificando la qualità delle relazioni, la forma degli affetti, il ritmo delle
attività, la considerazione di sé. Uno è sano quando il corpo se lo dimentica.
Se mi ammalo non coincido più col mio corpo. Sembra che la percezione del corpo
della persona che si ammala o che è in salute sia assolutamente incomunicabile,
inconoscibile, incondivisibile.
I
termini in inglese indicano perfettamente come il concetto di malattia sia
diverso a seconda dell’ambito in cui lo consideriamo:
·
Disease (il
disturbo fisico, la cui competenza spetta principalmente al medico, anche se
molte volte la manifestazione bio-organica altro non è che una conseguenza di
un malessere psico-sociale;
·
Sickness (il
ruolo sociale del malato);
·
Illness (il
vissuto emotivo del malato).
Questi
tre possibili modi di interpretare e leggere la malattia non possono essere che
considerati.
La
capacità di comunicare, l'accoglienza e l'ascolto, l'anamnesi dettagliata e intima,
il calmo incoraggiamento alla fiducia, l'implicita accettazione senza riserve
della richiesta d'aiuto che il paziente avanza, il freno alla pericolosa
pretesa di onnipotenza che alcuni medici ritengono opportuno esibire, il
rispetto assoluto del malato, l'umiltà di calarsi empaticamente nei suoi panni
per meglio capirlo sono le qualità di un buon medico che mette al primo posto
la relazione con il paziente e consentono di considerare i vari aspetti della
malattia.
Comunicare
dal latino comunis :che appartiene a tutti, significa propriamente “mettere
qualcosa in comune con gli altri”. Quando parliamo di comunicazione, parliamo
di come usare le varie possibilità che abbiamo per entrare in relazione con un
altro essere umano. Non e' possibile non comunicare, sembra una affermazione
banale, ma non e' vero. In ogni contesto di vita si crea la legge della
comunicazione.
Nel
trasmettere informazioni vi è una interazione nella quale vengono trasmesse sia
informazioni di contenuto attraverso la comunicazione verbale, sia informazioni
inerenti alle emozioni attraverso una comunicazione non verbale.
Ogni
comunicazione contiene un aspetto verbale ed un aspetto analogico, cioè non
verbale. Infatti noi non comunichiamo soltanto le parole, che dicono il
contenuto della comunicazione ma dobbiamo tener conto anche della comunicazione
non verbale.
Albert
Mehrabian ha appurato che l’incidenza di un messaggio è :
·
Per il
7% verbale (PAROLE); componente
linguistica
·
Per il 38% vocale
(TONO DI VOCE, INFLESSIONE, MUSICALITA’); componente paralinguistica
·
Per il 55% non verbale
(SGUARDO, POSIZIONI, GESTI, ESPRESSIONI, ATTEGGIAMENTI, MOVIMENTI); componente
cinesica e componente prossemica (le distanze).
IL
ruolo della comunicazione nel rapporto medico-paziente è stato analizzato nei dettagli
da tre psicologi: Rainer
Bec, Rebecca Daughtridge e Philip Stoane che hanno spulciato un trentennio di
letteratura sul tema, traendone delle interessanti conclusioni.
.Per
trasmettere in modo adeguato un messaggio, è necessario attuare una comunicazione decentrata, ossia per l’altro
(opposta a quella egocentrica) che implica:
· flessibilità comunicativa:
volontà e capacità di adattarsi al proprio interlocutore
· flessibilità semantica e di schemi di riferimento:
consapevolezza che il senso di gesti e parole può essere interpretato
diversamente in base ai diversi contesti e interagenti
· role taking:
capacità di assumere il punto di vista dell’interlocutore
· ri-codifica: dopo
aver codificato ciò che intendo trasmettere all’ interlocutore, lo adatto
(ri-codifico) in base alle sue caratteristiche
· disponibilità emotiva:
accettare l’altro anche dal punto di vista emotivo significa porsi in una
relazione simmetrica
Nella
COMUNICAZIONE VERBALE con il paziente distinguiamo:
·
Un ASPETTO INFORMATIVO in cui il medico da
informazioni corrette su DIAGNOSI PROGNOSI e TERAPIA.
·
Un ASPETTO PERSUASIVO in cui il medico esprime
verbalmente concetti col fine di produrre cambiamenti sulle opinioni del
paziente, sulla sua salute, sul significato dei suoi sintomi, sul vantaggio
connesso all’assunzione di un farmaco.
·
Nella COMUNICAZIONE NON-VERBALE un ruolo
fondamentale è svolto da:
·
IL CONTATTO FISICO es. stretta di mano
·
LO SGUARDO
·
L’ESPRESSIONE FACCIALE E MIMICA
·
LA VOCE
·
ALTRI INDICI: Gestualità delle mani e degli
arti, postura, collocazione spaziale
Es.
distanza e barriere fisiche.
La ricerca
di questi studiosi ha fatto emergere che esistono almeno 20 atteggiamenti verbali che incidono
favorevolmente sul rapporto clinico e 14 in modo negativo. Sul versante del
linguaggio del corpo invece sono apparsi rilevanti 16 comportamenti;
alcuni dei quali rendono la relazione più appagante, altri provocano
insofferenza e delusione.
Cominciando
dal dialogo, è fondamentale il fatto che il medico stia ad ascoltare ciò di cui
il paziente si lamenta e dia segno di aver compreso a fondo il problema;
inoltre, è molto importante che incoraggi il paziente a fare domande, ad
esprimere i propri dubbi ed a rivelare le proprie paure. Naturalmente, da parte
del medico non si tratta solo di assumere il giusto atteggiamento, ma anche di
sintonizzarsi su quelli che sono i segnali non verbali che regolano
l’interazione.
Esempio: chi
vuole prendere la parola, inspira, dischiude le labbra, solleva una mano o
l’intero avambraccio e lo tiene in sospeso fino a quando non gli viene concesso
di parlare; l’intenzione che sottende questi segnali è ulteriormente
rimarcata quando il paziente porta il
busto in avanti, solleva la testa e cerca con gli occhi lo sguardo del medico.
Assumere
un atteggiamento amichevole, gentile, parlare al livello culturale del paziente
e chiarire le informazioni date sono altri aspetti che fanno sentire il
paziente a proprio agio. Sempre sotto il profilo del dialogo, è buona norma
lasciare che il paziente possa esternare i propri commenti sulla situazione
prima di terminare l’incontro. Inoltre, la visita si dovrebbe concludere con
una definizione di obiettivi (esami, abitudini da assumere o vizi da perdere).
Anche
sostenere le iniziative del paziente, approvarlo e dimostrargli fiducia e stima
ha un effetto positivo sul suo umore e sul suo atteggiamento verso la malattia.
Quando si parla di malattie, malanni o di altri problemi fisici, la tensione
può raggiungere livelli notevoli, così se il medico fa una battuta o
sdrammatizza il problema, il paziente può sentirsi risollevato e impegnarsi con
più energia a seguire le sue indicazioni.
Estendere
il discorso alla vita del paziente, chiedergli delle sue emozioni, accertarsi
su come vanno i suoi rapporti personali e le cose in generale è sicuramente uno
strumento per mettere a suo agio l’interlocutore quando l’incontro è
all’esordio o quando si sta per concludere.. Inoltre dedicare un po’ di tempo
all’educazione alla salute, condividere osservazioni e conclusioni su esami e
accertamenti con il paziente e discutere sugli effetti del trattamento si
mostra piuttosto efficace. Una lamentela comune fra i pazienti è che il medico
dedichi loro poco tempo: si sentono perciò trascurati ed incompresi. Così,
compatibilmente con i propri impegni e con il numero di visite, non è una
cattiva idea prolungare l’incontro di alcuni minuti; tanto per far sentire
all’assistito che lo si considera anche come persona.
Fin
qui, abbiamo elencato quello che sarebbe l’atteggiamento ideale da assumere nel
corso di una visita.
Diamo
ora un’occhiata ai comportamenti che proprio indispongono o rendono deluso chi
si rivolge ad uno specialista. Gli atteggiamenti che
maggiormente demotivano o stizziscono il paziente vanno da un’accoglienza
fredda, al mostrarsi saccenti e autoritari, all’assumere
una condotta eccessivamente formale. Contrastare
in modo aperto e perentorio affermazioni del paziente o non prestarvi
attenzione sono altri comportamenti che creano malcontento. Un atteggiamento
che irrita parecchio il paziente è squalificarlo come
interlocutore; questo accade ad esempio quando il medico usa una
terminologia troppo tecnica e specialistica, lo interrompe spesso e non
risponde alle sue domande dirette. Anche la mancanza di
tatto da parte del dottore è vissuta in modo molto negativo: mostrarsi critici, scettici o colpevolizzanti
sull’esperienza del paziente o fargli domande molto
personali, specie se in modo brutale, o anche interrogarlo su questioni
non legate al motivo della visita danno, infatti, parecchio fastidio al
paziente. Talvolta una visita comporta un esame tattile: non dire niente o
borbottare commenti e opinioni durante la palpazione come parlando fra sé e sé
è particolarmente umiliante e frustrante per l’assistito.
Un
medico dovrebbe cercare di creare un clima tranquillo e sereno durante lo
svolgimento della visita: così se mostra ansia, irritazione, nervosismo o
tratta il paziente come uno scolaretto, ripetendogli in modo ripetitivo e con
fare “pedagogico” delle raccomandazioni provoca in quest’ultimo del
risentimento.
Sotto il profilo della comunicazione non verbale,
un professionista sanitario viene giudicato in modo più favorevole
quando annuisce spesso, esibisce una mimica
facciale cordiale, ma soprattutto espressiva e dà altri cenni
(con le palpebre o con il sollevamento delle sopracciglia) di attenzione. Il paziente
sente il medico più vicino e solidale quando quest’ultimo sta spesso inclinato
verso di lui e mantiene un orientamento nella sua direzione; non tiene braccia
o gambe incrociate e rispecchia le sue posture. Certi atteggiamenti dello
sguardo piuttosto frequenti nei medici possono risultare piuttosto fastidiosi
per gli assistiti: ad esempio, quando lo specialista fissa il paziente con
insistenza, senza alcun calore nello sguardo o quando lo degna di uno sguardo
appena dopo aver esaminato la cartella clinica. Il tono di voce dovrebbe essere
calmo, né troppo alto, né troppo basso. Nelle comuni relazioni interpersonali
si fa conoscenza con l’altro con una stretta di mano: difficilmente questo
avviene tra medico e paziente: se quest’ultimo solleva la mano, la sua
intenzione può essere ignorata o la stretta può essere data in modo debole; un
atteggiamento del genere, comunica distacco e superiorità. Altri comportamenti
che infastidiscono il paziente sono ancora: orientare il corpo in direzioni
diverse da quella della persona venuta a consulto, tenere la schiena
costantemente appoggiata sullo schienale, incrociare le braccia o, durante la
palpazione, non rispettare la sua intimità e insistere in modo eccessivo.
Comprendere meglio la comunicazione non verbale da parte del medico gli
consentirebbe di accorgersi quando il paziente esita ad aprirsi, ha paura o
preferisce nascondere qualcosa.
Facciamo
qualche esempio.
Poniamo
che un uomo abbia dei segni sulla pelle e quando il medico gli chieda se ha
avuto rapporti a rischio, allontani il portapenne o deglutisca; dia cioè segni
di menzogna, ma neghi a parole. Se il medico conoscesse il linguaggio del
corpo, potrebbe interpretare anche questi segni e fare una diagnosi più mirata
e corretta. Se il paziente, solleva le sopracciglia e le unisce al centro
parlando del motivo per cui si è rivolto allo specialista vuol dire che è in
ansia; questo non significa però che sia capace di raccontarlo; se il medico
fosse in grado di riconoscere il segnale, potrebbe cercare di assumere un
atteggiamento più confidenziale, mettere a suo agio il paziente o rassicurarlo.
Riconoscere la mimica facciale della sofferenza potrebbe poi essere utile nel
momento in cui, per paura di scoprire qualcosa di brutto, il paziente dovesse
negare di provare un dolore.
La
comunicazione efficace tra il medico, il paziente e la sua famiglia deve essere
considerata come una funzione clinica fondamentale da non trascurare.
Instaurando un processo di comunicazione interpersonale con il paziente, il
medico può non solo ottenere delle utili informazioni per indirizzare il
percorso diagnostico e terapeutico, ma anche suscitare un buon livello di
soddisfazione e di consenso che finisce per incidere positivamente sui
risultati clinici complessivi.
Il
medico dovrebbe avere un atteggiamento di APERTURA CON STILE NON DIRETTIVO nei
confronti del paziente facendo sentire quest’ultimo prima di tutto un essere
umano con la sua individualità ed umanità attraverso:
·
ASCOLTO ATTIVO
·
EMPATIA, OTTENUTA CON UNA CORRETTA GESTIONE
DELLE EMOZIONI ( Esplicitare, Comprendere, Rispettare, Aiutare)
Esempi:
·
Pz esprime solitudine per la morte di un amico.
·
M: Così si è sentito parecchio solo
(esplicitare).
·
Dividevamo tante cose … esagero?
·
M: La capisco, ci addoloriamo per tutte le
perdite, è comprensibile (Comprendere).
·
Pz: Ho pensato. È stupido, lo so … che potrei
avere anch’io un tumore …
·
M: E’
stato un periodo difficile per lei, è normale (Rispettare.)
·
Pz: Lo è stato davvero. (pausa) Grazie. Ora mi
sento meglio …
·
M: Qualche volta serve proprio parlarne
(Aiutare.)
L’EMPATIA
MIGLIORA LA COMUNICAZIONE:
Esempio
1
•
M: I suoi genitori sono viventi?
•
Pz: No, la mamma è morta nel 1978.
•
M: Per quale motivo?
•
Pz: Penso fosse cancro, dottore.
•
M: In quale parte del corpo?
•
Pz: Non sono sicura.
•
M: Aveva avuto interventi chirurgici? Era stata
ricoverata in ospedale?
Esempio
2 M: I suoi genitori sono viventi?
•
Pz: No, la mamma è morta nel 1978.
•
M: (pausa) Lei aveva solo 12 anni allora …
•
Pz: In realtà ero ancora una bambina. Ho dovuto
aiutare mio padre ad occuparsi di lei quando è tornata dall’ospedale. Aveva un
cancro. Attualmente, spesso penso a lei. Spero non accada lo stesso anche a me.
Per questo vorrei che mi visitasse oggi …
Questi
modelli comunicativi si realizzano assai raramente in un rapporto medico
paziente, infatti, a tal proposito possono essere interessanti i risultati di
uno studio realizzato dal Servizio sanitario canadese, riguardante il rapporto
medico-paziente con particolare riferimento all’Assistenza Sanitaria primaria. Nel 54 per cento dei casi il medico non
prendeva in considerazione le proteste dei propri pazienti e nel 45 per cento
dei casi non ascoltava con attenzione le loro preoccupazioni. Nel percorso
di comunicazione tra medico e paziente vi possono essere degli atteggiamenti da
seguire, altri da evitare, nell’ottica di avvicinarsi sempre di più alle
esigenze dell’utente. Il medico deve sforzarsi di capire il disagio dei
pazienti, cercando di non trascurare i loro sentimenti e le speranze di salute,
coltivando la capacità di miglioramento della relazione in un’ottica di
“gentilezza attiva” e di empatia con i propri assistiti.
- Non esprimere mai troppi concetti
contemporaneamente.
- Quando si parla rivolgersi sempre
direttamente al paziente, evitando di fare gesti che possano distrarlo.
- Quando si devono trasmettere informazioni
importanti, cercare di coinvolgere anche i familiari se sono presenti.
- Ripetere sempre l’informazione più volte,
in modo che sia più comprensibile, specie se chi ascolta possiede un basso
grado d’istruzione.
- Pianificare il discorso in modo che i punti
più importanti dell’informazione vengano dati sia all’inizio che alla fine
di esso.
- Per essere più chiari, ricorrere ad esempi
che possano risultare facilmente comprensibili per il paziente, magari
riferendosi a vicende cliniche legate a lui o ai suoi familiari.
- Per mettere maggiormente a suo agio il
paziente e favorire una maggiore comprensione del messaggio informativo,
si può fare ricorso all’uso di qualche termine più colloquiale, popolare
talvolta anche dialettale.
- Quando si forniscono indicazioni sui
dosaggi e sui tipi di farmaci che il paziente deve assumere, portare
sempre esempi pratici: chiarire il tipo di pillole (capsule, compresse,
colore, forma, come si possono dividere, ecc.); nell’uso di sciroppo
specificare bene se bisogna utilizzare un cucchiaio da tavola o un
cucchiaino; indicare sempre le tacche del misurino.
- Accertarsi che il paziente abbia capito,
rendendolo partecipe delle decisioni e facendogli ripetere il dosaggio che
deve assumere.
- Esprimere sempre ottimismo, incoraggiando
il paziente in difficoltà: un eccesso di pessimismo può porlo in una
posizione di scetticismo, con possibile calo di fiducia e rifiuto della
terapia.
· IL
PROBLEMA DEL TEMPO
· IL PROBLEMA DEL DOLORE, DELLA SOFFERENZA E
DELLA MORTE
· IL
PROBLEMA DELLA SESSUALITA’
· IL PROBLEMA DELLE ANSIE DEL MEDICO: ansia di
incapacità e fallimento
· IL
PROBLEMA DELL’ ERRORE
“E’ il
più terrificante dei sentimenti rendersi conto che il medico non sa vedere la
tua realtà, che non sa capire quello che senti, e che sta andando avanti
semplicemente di testa sua. Cominciavo a sentire di essere invisibile e forse
di non esserci nemmeno”.
Brano tratto dal libro
“L’io diviso” di Laing
Parole
che conducono a interrogarsi su quanto il comprendere l’altro, non in senso
esclusivamente emotivo o esclusivamente razionale, sia un fondamento importante
delle relazioni umane. Sarebbe però troppo riduttivo, pur nella sua accezione
generale, associare questa “comprensione dell’altro” al termine Empatia.
Empatia
è infatti un costrutto che va più in profondità, che implica quel qualcosa in
più di difficile attribuzione.
In
greco il termine “empatheia” (passione) stava a definire l’ingresso nella
sofferenza di un’altra persona fino a identificarsi con lei.
Gli
autori romantici tedeschi del XIX secolo (Herder e
Novalis) coniarono il termine “einfuhlung” ( letteralmente
immedesimazione ) per descrivere l’esperienza di fusione dell’anima con la
natura, concepita quest’ultima quale flusso vitale spirituale. Non emergevano
però tentativi per una sistematizzazione teorica del concetto di empatia.
L’empatia peraltro non è mai stato oggetto di interesse da parte della scienza
medica.
A
occuparsi maggiormente di empatia furono dapprima i filosofi e successivamente
i cultori della psicologia umana.
Il
filosofo Theodor Lipps ebbe il merito di portare
il discorso dall’estetica alla comunicazione intersoggettiva identificando
l’empatia quale processo innato di imitazione e proiezione.
E’ però
nell’ambito della fenomenologia che l’empatia diviene vero oggetto di studio.
Fu la filosofa Edith
Stein ad approfondire tale ricerca ponendosi in antitesi al dualismo
cartesiano. La ricerca filosofica contribuì alla sua conversione dal credo
ebraico al cattolicesimo fino alla scelta di entrare nell’ordine delle
Carmelitane col nome di Teresa Benedetta della Croce, canonizzata nel 1998 da
Papa Giovanni Paolo II. La Stein per le sue origini ebraiche fu internata dai
nazisti e morì ad Auschwitz nel1942. La Stein fu allieva di Husserl e ottenne
il dottorato in filosofia all’Università di Friburgo nel 1916 discutendo la
tesi “Sul problema dell’empatia”. Secondo la Stein per empatia era da
intendersi l’atto mediante il quale la persona si costituisce attraverso
l’esperienza dell’alterità, cioè del rapporto con l’altro. Per usare le sue
parole “ l’empatia è l’atto paradossale attraverso cui la realtà di “altro”, di
ciò che non siamo, non abbiamo ancora vissuto o che non vivremo mai e che ci
sposta altrove, nell’ignoto, diventa elemento dell’esperienza più intima cioè
quella del sentire insieme che produce ampliamento ed espansione verso ciò che
è oltre, imprevisto”. Anche nel momento della massima immedesimazione
l’Io non scompare in un Io fusionale o subordinato ma mantiene una sua
diversità. E’ questa diversità che permette l’empatia perché un io fusionale
senza il successivo distanziamento non consentirebbe l’esperienza dell’altro.
L’empatia
affettivo - emotiva di Stein è caratterizzata dalla seguente
tripletta:
1.
Coglimento del vissuto altrui
2.
Immedesimazione in esso
3.
Oggettivazione dello stesso
A
questo concetto si contrappone quello di empatia cognitiva, introdotto da Mead rappresentata attraverso un processo quasi
inverso:
1.
Oggettivazione cognitiva del comportamento
altrui
2.
Immedesimazione proiettiva del vissuto altri e
possibile categorizzazione
3.
Coglimento del vissuto dell’altro nella sua
autenticità
Con
le sfumature emozionali specifiche dell’altro che differiscono sia da quelle
specificamente sperimentate dal soggetto che da quelle categorizzate.
Mead
spiega l’empatia cognitiva come una capacità di comunicazione di idee piuttosto
che un sentire lo stato emozionale dell’altro.
Pertanto
mentre l’empatia affettiva conduce all’accettazione dell’altro e della realtà
della sua presenza nel mondo, l’empatia cognitiva costruisce un significato che
non può essere discusso e negoziato.
Attraverso
l’empatia cognitiva noi costruiamo una personale sapienza sui tipi umani;
l’empatia emotivo - affettiva non è classificatoria, perché spesso ci dischiude
a percezioni del vissuto altrui a noi ignote, o se note, a qualche particolare
significato, o sfumatura, del cui sapore non avevamo precedentemente
conoscenza.
Inoltre
consente di percepire l’altro come persona che vive quella particolare emozione
e di dar corpo, attraverso l’emozione condivisa, al processo di co-costruzione
di un sentimento, anch’esso empatizzabile dalle persone in relazione e da
terzi. Il processo che conduce dalle emozioni percepite alla condivisione e
alla co-costruzione di sentimenti, diventa cognitivo in una successiva fase del
suo sviluppo. Quando la narrazione si trasforma in testimonianza essa si apre
verso l’empatia cognitiva. Con un processo del tutto inverso l’empatia
cognitiva conduce alla comprensione del vissuto altrui partendo dalla
condivisione di simboli su cui è possibile investigare intellettivamente .
L’empatia
cognitiva è un’intuizione categoriale, o un ragionamento sull’altro, possibile
in ragione della comune appartenenza alla specie. A partire dall’empatia
cognitiva si può giungere alla percezione emozionale e affettiva, ed alla
costruzione di legami sociali mediante sentimenti condivisi, se le relazioni
faccia a faccia, aprono alla percezione dell’identità dell’altro come persona e
alla manifestazione autentica di vissuti “qui ed ora”.
La
cognizione può favorire l’empatia emozionale e affettiva , ma solo se liberata
da eccessi di proiezione e di immedesimazione, precategorizzati nel soggetto
interpretante che rischiano di produrre effetti distorcenti sulla comprensione.
Pertanto
non è detto che tale modello di comprensione del vissuto altrui si offra come
forma indubitabile di sapere umanizzante. Può infatti nascondere proiezioni
poiché l’empatia cognitiva si basa sugli schemi mentali di chi interpreta.
Edith
Stein, inoltre esprime anche il concetto di “NOI SOCIALE”.
L’empatia,infatti,
è ponte tra vita personale e vita altrui, tra vita personale e vita sociale. È
la genesi del noi sociale, luogo di cooperazione e condivisione, vera comunità
umana. Il momento empatico diviene il luogo privilegiato della ricerca della
verità, è un’esperienza interiore che porta a oltrepassare la visione del
nostro mondo. Si entra nel mondo dello spirito. Per la Stein “il
mondo dello spirito non è meno reale né meno conoscibile del mondo naturale”.
“Poiché
l’uomo appartiene a tutti e due i regni, la storia dell’umanità li deve
prendere ambedue in considerazione”.
E’
dunque essenziale entrare nell’orizzonte dello spirito perché dare un senso è
un’operazione terapeutica, come suggerisce Victor
Frankl: “Raccontai ai miei compagni che la vita umana ha sempre, in
tutte le circostanze, un significato, e che questo infinito senso dell'essere
comprende anche sofferenze, morte, miseria e malattie mortali. Dissi loro che
in queste ore difficili qualcuno guardava dall'alto, con sguardo
d'incoraggiamento, ciascuno di noi, e specialmente coloro che vivevano le loro
ultime ore; un amico o una donna, un vivo o un morto, oppure Dio. E questo
qualcuno s'attendeva di non essere deluso, che sapessimo soffrire e morire non
da poveracci ma con orgoglio!”. Frankl, internato in un lager nazista, osservò
che tra i suoi compagni di sventura, coloro che credevano in qualcosa e che
continuavano a dare un “senso” alla propria vita, erano più resistenti alle
malattie e deprivazioni.
Freud, al contrario, nel suo testo “psicologia delle
masse e analisi dell’io” parla di einfuhlung, immedesimazione, attribuendole
esclusivamente una funzione interpretativa negandole nel contempo una valenza
terapeutica.
Fu Kohut teorico della psicologia del sé definì
“l’immersione empatica” un “introspezione vicariante”
una sorta di prestito a un’altra persona della propria capacità introspettiva.
La funzione empatica è ciò che ci consente di osservare l’interiorità nostra e
delle altre persone. Il bisogno di empatia secondo Kohut perdura tutta la vita.
E’ un bisogno fondamentale, un nutrimento, generato dalla paura di autoesclusione
dal mondo. L’empatia secondo l’autore è dunque essenziale per mantenere la
salute mentale e la presenza di fenomeni empatici tra madre e figlio è
fondamentale per lo sviluppo di un attaccamento sicuro nella prima infanzia.
L’ambiente
empatico è quindi, secondo Kohut, condizione necessaria per conservare la
coesione del sé e in ambito clinico è già di per sé atto terapeutico in quanto
rafforzante la coesione del sé e l’autostima.
Carl Rogers diede all’empatia un ruolo centrale nel suo
impianto teorico. Nella sua definizione riemerge il concetto di immedesimazione
non fusionale espresso anni prima da Edith Stein :
“ … lo stato di empatia, dell’essere empatico, è
il recepire lo schema di riferimento interiore di un altro con accuratezza e
con le componenti emozionali e di significato ad esso pertinenti, come se una
sola fosse la persona - ma senza mai perdere di vista questa condizione del
come se. Significa perciò sentire la ferita o il piacere di un altro come lui
lo sente, e di percepirne le cause come lui le percepisce, ma senza mai
dimenticarsi che è come se io fossi ferito o provassi piacere e così via. Se
questa qualità di come se manca, allora lo stato è quello dell’identificazione”.
Per
Rogers l’empatia è il fattore più importante nell’ingenerare un cambiamento nel
paziente. L’empatia nel counseling prepara, per usare le sue parole, il
successo futuro. La competenza empatica non è un’operazione di tipo cognitivo e
quindi non può essere acquisita mediante un apprendimento teorico ma attraverso
l’esperienza formativa, professionale e di vita quotidiana. Anche Karl Jaspers operò una distinzione tra comprensione
razionale e comprensione empatica. Essere empatici secondo Jaspers non è
correlabile alle proprie capacità intellettuali o a titoli accademici.
L’esperto dunque non è necessariamente una persona empatica. Da questo breve,
parziale e sintetico excursus storico possiamo trarre alcune riflessioni.
La
prima, ormai indiscutibile, è che la medicina attuale, centrata sulla tecnica e
sull’economia, è una medicina muta, priva di empatia. Una medicina che ignora
la soggettività e che in funzione della tecnologia oggettivizza le persone
nell’illusione che l’esproprio della soggettività sia un vantaggio terapeutico
ed economico.
Purtroppo
la medicina attuale è centrata sul sintomo e la stessa attività del medico è
spesso regolata da esigenze di tipo manageriali, pertanto nascono linee guida,
percorsi diagnostici-strumentali, regole prescrittive e così via. Di per sé
questi aspetti non vanno considerati negativi in senso assoluto, ma diventano
tali quando la soggettività del malato viene sistematicamente offuscata.
La
seconda riflessione consegue alla constatazione che l’empatia non è un concetto
per i soli addetti ai lavori, medici, filosofi o psicologi, ma riguarda
l’umanità intera. Quel noi sociale di Edit Stein e quel nutrimento psicologico
di Heinz Kohut senza i quali si va verso la distruttività e disumanizzazione.
Empatia dunque come dispositivo etico fondato però su valori di rispetto e
dignità personale, in uno spirito di ciò che Karl Jaspers chiamava
corresponsabilità.
Certo
restano delle problematiche aperte relative ai valori dei vari contesti
socio-culturali in una società ormai globalizzata, all’aiuto per le persone
fragili, coartate o con deficit mentali, alla ricerca scientifica che deve
investire e operare scelte coraggiose in funzione della soggettività.
Problematiche che devono trovare una risposta soprattutto nella classe Medica
storicamente e istituzionalmente dedicata alla cura. Un’ultima riflessione è
relativa alla genesi stessa dell’empatia che è certamente qualcosa di complesso
che richiama aspetti psicologici, spirituali e biologici. E’ il tempo
opportuno, kairos, nel quale si incontrano medico e paziente conducendoci alla
scoperta dell’irripetibilità della persona; è il kairos che ci viene offerto
per arricchire la nostra esperienza e umanità. E’ quel qualcosa di misterioso
che unisce gli esseri umani tra loro, nella buona e nella cattiva sorte. E
prendendo in prestito una frase di Einstein:
“La cosa più bella che possiamo sperimentare
è il mistero; è la fonte di ogni vera arte e di ogni vera scienza. Essere che
non conosce questa emozione, che è incapace di fermarsi per lo stupore e
restare avvolto dal timore reverenziale, è come un morto”.
Chi val dal medico in realtà non espone solo i propri sintomi.
Esprime la propria soggettività, la propria sofferenza e la propria domanda di
senso
e significato. La realtà della persona è l’insieme
di corpo, mente e spirito (spirito in teso quale domanda di significato).
Quando ci si ammala non si è colpiti solo nel corpo ma anche le altre
componenti sono coinvolte nel processo patologico. Che lo spirito attivi
determinate dinamiche è un dato oggettivo: molti malati davanti a una diagnosi
di gravità si pongono la domanda: “ perché proprio a me?”
Non è
altro che una domanda di significato, un’esternare la propria soggettività.
Ponendo la persona al centro dell’agire medico la malattia può rivelarsi non
solo un handicap o una disgrazia, ma anche una risorsa, in quanto apre alla
domanda di significato e consente la messa in moto di una capacità reattiva con
i suoi correlati psiconeuroendocrini ed immunologici. L’ideogramma cinese Wej.ji è composto da due parole, pericolo ed
opportunità:
può sicuramente essere applicata a questo
concetto dal momento che nei momenti di crisi, anche durante quelli più duri,
si nascondono due grandi eventi, il pericolo e
l’opportunità. Sta poi nell’abilità delle persone saper raccogliere le
opportunità schivando i pericoli. E’ proprio durante i periodi di crisi che
avviene una selezione naturale, ovvero solo quelle persone che sono in grado di
saper leggere gli eventi e prendere decisioni, sapranno superare i pericoli, ma
sopratutto saranno pronte a cavalcare l’onda della ripresa quando questa
arriverà. Allora ecco che sono sempre le persone che possono decidere le sorti
di se stesse
Così, a
esempio, i sintomi delle malattie, non sono solo un richiamo del passato, da
sopprimere, da abbattere come un ostacolo o una ferita da cicatrizzare, ma una
memoria da ritrovare, un consiglio a mettersi a nudo davanti ai propri occhi e
anche un invito rivolto al futuro ed a porci la domanda: "Cosa mi sta
chiedendo? A cosa m’invita? Verso dove
vuol portare la mia riflessione?"
.La
malattia può essere vista allora come opportunità di cambiamento, basti
pensare, quante volte viviamo in balia degli eventi dalla vita, concentrandoci
solo sul lavoro senza pensare agli affetti , alla nostra interiorità, non
vivendo ogni momento come fosse l’ultimo. La malattia , con la paura della
morte, può destabilizzare il nostro modo di pensare, farci cambiare le nostre
priorità, mostrandoci quanto siamo attaccati alla vita e quanto conta anche
solo un attimo di sole o un sorriso.
È dunque essenziale andare al di là del corporeo ed entrare
nell’orizzonte dello spirito.
La realtà non è ciò che ci
accade ma ciò che noi facciamo con quel
che ci accade.
" Aldous Huxley.
"Dov’è il pericolo c’è anche la salvezza.
" Hölderlin
L’empatia
allora viene ad assumere un ruolo centrale nel rapporto medico paziente:
diviene il veicolo di ciò che definiamo alleanza terapeutica e base della
fiducia reciproca. I nostri pazienti non chiedono solo professionalità ma
quella dose di umanità che fa si che si sentano considerati e non oggetti di
studio e ricettori di farmaci ma persone con la propria dignità.
L’empatia
attraverso un ascolto attivo, comprensivo, del medico permette una comprensione
completa del paziente come individuo e ciò permette:
·
La condivisione emotiva
·
Il contenimento
·
La fiducia in se stessi e negli altri
che
permette al paziente di accettare la
propria malattia e lo rende più disponibile ad accettare le cure proposte dal
medico.
“La
vita non è quella che si è vissuta ma quella che si ricorda e come la si
ricorda per raccontarla”.
G. G. Marquez
“Il
fatto è che il medico vede il male e il paziente sente un dolore: due cose
diverse. Il dolore è un vissuto soggettivo che il paziente narra e non coincide
con il male oggettivo che il medico cerca. Il dolore esce dai confini del corpo
e pervade la vita, modificando la qualità delle relazioni, la forma degli
affetti, il ritmo delle attività, la considerazione di sé. Uno è sano quando il
corpo se lo dimentica. Se mi ammalo, non coincido più col mio corpo. Non dico
«ho un corpo stanco», ma «sono stanco». E nel «sono» c'è una perfetta
coincidenza tra io e corpo”
Vincenzo
Masini
.
Nella vita di tutti i giorni
utilizziamo la nostra capacità narrativa per raccontarci agli altri, per dire
qualcosa di noi, del nostro passato ma anche delle nostre aspettative future.
Allo stesso modo il paziente racconta al medico la propria “storia di malattia”,
e questa è la descrizione più vera e completa del suo malessere.
Il movimento di medicina
narrativa, fondato da Rita Charon, della Facoltà di Medicina della Columbia
University , nasce negli USA dalla constatazione che, a fronte di tecnologie di
diagnosi e analisi sempre più sofisticate, è passata in secondo piano la
capacità da parte dei medici di ascoltare i pazienti leggendo nelle loro parole
quegli elementi indispensabili, per il trattamento e la cura della malattia.
Oggi, se da un lato la medicina
ha raggiunto straordinari traguardi di sviluppo tecnologico e progressi nella
ricerca scientifica attraverso la medicina basata sulle evidenze (EBM),
dall’altro ha messo in crisi il dialogo e il rapporto umano del medico nei
confronti del paziente. Pertanto negli anni ottanta, nasceva in
contrapposizione la NBM ( narrative based medicine: medicina narrativa), al
fine di favorire l’empatia nella relazione d’aiuto, il contatto e la
comprensione reciproca tra medico e paziente attraverso la narrazione della
patologia del paziente al medico è considerandola al pari dei segni e dei
sintomi clinici della malattia stessa.
L’applicazione di una medicina
basata solo sulle prove scientifiche è unita all’erroneo principio secondo cui
l’osservazione clinica è oggettiva e come tutte le procedure scientifiche
dovrebbe essere sempre riproducibile nello stesso modo. L’EBM si basa sulla
definizione diagnostica della malattia, su studi, casi e dati statistici e le
percentuali di successo sui pazienti. E’come se i pazienti venissero omologati
in base alle patologie. Al contrario, la medicina narrativa considera la
soggettività della malattia e considera l’unicità
del vissuto del paziente, in questo modo nessuno risulta uguale a un altro.
La NBM non nasce come reazione e alternativa all’EBM ma come ampliamento di
essa: non tutto ciò che è fonte di salute e benessere può essere valutato
attraverso trial controllati.
La NBM, si riferisce non solo al
vissuto del paziente ma anche ai vissuti del medico ed alla loro relazione. Il nucleo centrale della medicina
narrativa è il processo di ascolto del paziente mediante una tecnica di
conversazione molto raffinata che conduce il medico a capire, mediante
l’ascolto delle proprie emozioni e di quelle del paziente, il significato della
sua pratica clinica.
La medicina narrativa stimola
tre processi:
·
l’anamnesi esistenziale e relazionale del
vissuto del paziente (non solo la malattia ma anche il malessere),
·
la
co-costruzione tra medico e paziente del significato del vissuto di malattia,
e
·
l’apertura progressiva della biomedicina ai
contributi delle medicine complementari, naturali e del quotidiano.
Il medico-counselor, date le sue
competenze, umane e tecniche, riuscirà maggiormente ad entrare nell’interiorità
del paziente.
Ma che
cos’è la medicina narrativa? È un’innovativa tecnica di comunicazione medica
che pone attenzione alle storie di malattia per comprendere in modo più
approfondito i pazienti e le loro patologie, collocandoli nel loro specifico
contesto. La narrazione, oltre che restituire ai pazienti
la centralità, offre ai medici la possibilità di avere una visione più completa
e approfondita della malattia. Il
significato costruito da questa relazione porta ad investigazioni anamnestiche
più profonde attraverso l’analisi dei vissuti del paziente.
La
narrazione ha un ruolo terapeutico, migliora lo stato d’animo del paziente e lo
aiuta ad accettare la diagnosi e le cure. La narrazione getta ponti tra la
medicina intesa come processo biologico e la malattia in quanto esperienza
vissuta, crea un ponte tra due mondi: quello del medico e quello del paziente,
apparentemente così lontani tra loro.
Caratteristiche
della narrazione:
•
successione temporale degli eventi;
•
presuppone un narratore e un ascoltatore;
•
influenza dello stato d’animo (e di salute)
sulla narrazione.
Saper
analizzare i momenti della narrazione aiuta a capire come e in che modo il
paziente è malato e permette di attuare un approccio olistico. Le narrazioni
aiutano il medico nelle varie fasi del rapporto con il paziente.
Nella diagnosi:
- le narrazioni sono la forma fenomenica in
cui i pazienti sperimentano la malattia;
- incoraggiano la comprensione reciproca;
- forniscono informazioni utili (altrimenti
non conoscibili).
Nell’educazione di
pazienti e operatori sanitari:
- sono utili perché fondate sulle esperienze;
- incoraggiano la riflessione;
- rimangono impresse nella memoria.
Praticare
la medicina con competenze narrative, aiuta il medico a interpretare
accuratamente e velocemente ciò che il paziente tenta di dire. L’esperienza
umana del dolore non può essere descritta in modo esaustivo attraverso il
rigore scientifico dell’anamnesi clinica, ma può essere espressa anche sotto
forma di colori, figure e immagini nel linguaggio cifrato della
rappresentazione artistica.
Anche
la narrazione del sanitario è fondamentale in questo processo perché migliora
il rapporto medico-paziente incoraggiando l’introspezione, la riflessione
esistenziale e l’umanità del medico.
La
Medicina Narrativa è un approccio che ha anche lo scopo di risvegliare nei
malati cronici risorse per riuscire a trovare quelle energie mentali ed emotive
che consentono di avviarli a una nuova fase della loro biografia e della loro
vita, la persona deve arrivare a comprendere che quanto sta facendo è utile per
il raggiungimento di un nuovo stato di benessere personale. Questo approccio è
indispensabile soprattutto quando la terapia tradizionale non promette una
guarigione perché aiuta a convivere con la malattia, aiuta la persona a
comprendere di più il suo stato, la aiuta a ristabilire un’alleanza tra la
medicina e l’educazione, tra il supporto farmacologico e la disponibilità a
prendere coscienza della propria condizione. Essa non ha la presunzione di
guarire il “male di vivere”, non è un toccasana, ma neppure la terapia medica
in corso di malattie croniche è in grado di guarire il male.
La
scrittura della propria vita svolge una funzione di auto aiuto e monitoraggio
con funzioni auto lenitive, terapeutiche e catartiche, essa facilita la sintesi
di sostanze immunitarie ed antidepressive, anche se in forma blanda, e potenti
risorse sul piano dell’autostima, del senso, della conquista delle parole per dirsi
e spiegarsi e della ricerca di un’energia mentale necessaria a rappresentarsi
in altre condizioni e occasioni (D. Demetrio, Raccontarsi, l’Autobiografia
come cura di sé).
Il
conforto recato dalla narrazione è pari ad una liberazione: il racconto genera,
infatti, quel distacco necessario all’elaborazione e all’accettazione dei
vissuti dolorosi. La capacità curativa del racconto autobiografico è ancora più
significativa quando la narrazione si trasforma in scrittura. La scrittura,
infatti, ha la capacità di sviluppare e stimolare a un livello più profondo il
ripiegamento su se stessi. Il bisogno di raccontarsi nasce spesso dalla
sofferenza che viene rielaborata attraverso la parola o attraverso la scrittura
diventando così uno strumento di cura.
Quando
il medico diventa paziente. La testimonianza di tre medici.
L’effetto dirompente della malattia, specialmente se
grave, getta il paziente in uno stato emotivo di ansia e sconforto. Questa
debolezza, fisica e psicologica, inserita nell’ambiente ospedaliero si amplifica,
spesso anche a causa di approcci a volte un po’ distaccati e ostili di medici e
infermieri.
Tre
grandi medici (Sandro Bartoccioni,
Gianni
Bonadonna, Francesco
Sartori) ammalatisi gravemente, hanno potuto sperimentare l’essere dall’altra
parte, l’essere pazienti. e da quel momento sono costretti a guardare la vita con gli occhi del paziente
anziché del medico. Cambiando tutte le loro prospettive, i punti di vista sull’esistenza, la
gerarchia dei valori, la stessa valutazione
critica del mondo sanitario cui appartengono da anni. Ne viene fuori una testimonianza ricca di interesse e di umanità, spesso toccante ma
disseminata qua e là di quei
risvolti ironici che non di rado le grandi difficoltà riescono a far emergere. La loro testimonianza
è anche una denuncia sia verso il Sistema Sanitario, sempre più preso dalla
burocrazia, sia verso i medici, spesso lontani dalle persone che hanno in cura.
A
questo riguardo proprio il professor Bartoccioni ha posto in rilievo alcuni
punti di grande sofferenza in chi si trova catapultato e subito dopo impigliato
nelle spire della ricerca del «medico giusto», della competenza adatta, con il
rischio di doversi sobbarcare inutili peregrinazioni alla ricerca di un aiuto che
il più delle volte era disponibile a portata di mano. Rimangono impresse nella
memoria, nel corso delle interviste raccolte, alcune stilettate polemiche
rivolte alla superficiale disinvoltura con cui certi medici vaticinano con
grande sicurezza prognosi infauste («Ti dicono: “ha sei mesi di vita”, mai cinque
o sette, sono affezionati ai sei mesi. Eppure si sa così poco del corpo umano e
delle sue reazioni, come si possono fare certe previsioni con tanta
leggerezza?»). Efficace anche l’immagine a cui il professor Bartoccioni ha voluto
affidare la spiegazione di come la malattia, insieme al dolore e allo
smarrimento, possa portare anche un ricco contributo di conoscenza: «La
malattia mi ha costretto a vivere un altro film, a immergermi in una sorta di
seconda vita, di nuovi contatti umani, ad accorgermi della bellezza e
importanza di tanti aspetti quotidiani che sottovalutiamo».
“Allora
chiesero al maestro: ora vogliamo chiederti della morte. E lui disse: voi
vorreste conoscere il segreto della morte, ma come potete scoprirlo se non
cercandolo nel cuore della vita? Il gufo, i cui occhi notturni sono ciechi al
giorno, non può svelarci il mistero della luce. Se allora volete davvero
conoscere lo spirito della morte spalancate il vostro cuore al corpo della
vita, poiché vita e morte sono una cosa sola, come una cosa sola sono il fiume
e il mare”.”
Un po’
tutti dovremmo prendere l’abitudine di pensare ogni tanto alla morte per non
avere paura della vita”.
Elisabeth Kubler Ross
Aggiungi vita ai tuoi giorni piuttosto che
giorni alla tua vita.
Rita Levi Montalcini
La
morte è l’unica certezza della vita: una realtà che ci rincorre o meglio ci
aspetta. La morte è nascosta dietro l’angolo, un angolo ignoto nel tempo e
nello spazio ma sicuramente esistente. Ignorarla non serve ad esorcizzarla: è
solo segno di immaturità. Pensarci per tempo può giovare ad accettarla con
mestizia ma con responsabilità, piuttosto che con negazione e terrore.
Il
timore della morte è presente in tutte le culture, ma molto di più nella nostra
società odierna che nega la morte, la rimuove, la vive quasi con ripugnanza. La
morte è un tabù: non se ne deve parlare.
In
realtà chi ha raggiunto una identità completa, chi vive l’esistenza veramente
in pieno, è pronto a prepararsi in pace all’ultimo dei tanti appuntamenti che
hanno costellato e ritmato la vita.
Parlare
della morte significa cercare di conoscerla, anche correggendone vari equivoci.
Il primo di questi concerne la morte intesa come un momento: quello della
“candela che si spegne”. In realtà si muore a poco a poco durante tutta la
vita. Tolstoj diceva : si nasce e si vive solo per morire. Jung: se l’uomo
nella prima metà della vita è animato da un istintivo “voler vivere” deve
prepararsi, nella seconda metà a “voler morire” unico atteggiamento che gli può
permettere di continuare a voler vivere.
La
morte non può essere paragonata ad altre esperienze vissute perché il vissuto
esistenziale è strutturalmente vitale. La morte è solo un momento biologico, di
cui, in genere, non si è consapevoli:la coscienza vitale non conosce la morte.
Il morire, invece, è un concetto oltre che un fatto. A livello di idea, precede
di anni il sentimento terminale di stare morendo. L’uomo sa da sempre che
morirà. Perciò l’uomo ha paura. Una paura che si può vincere solo con l’amore.
Per la
corrente esistenzialista, l'esistenza autentica, implica che l'uomo assuma pienamente
il proprio essere-per-la-morte, attraverso l''anticipazione' della morte, che
non significa un "pensare alla morte", nel senso di tener presente
che dovremo prima o poi morire, cercando di controllarne il come e il quando,
ma nel considerare la nostra intera esistenza come costellata di pure
possibilità. In altre parole, la morte possibilizza le possibilità, le fa
apparire realmente tali; e con ciò, le fa cadere sotto il dominio dell'Esserci,
il quale non si attacca a nessuna di esse in modo definitivo, ma le inserisce
nel contesto sempre aperto del proprio progetto esistenziale. L'autenticità
dell'esistenza si esprime attraverso l'assunzione pienamente consapevole del
nostro costitutivo essere per- la-morte. Ciò comporta una 'demitizzazione' e
una responsabilizzazione' delle possibilità esistenziali nelle quali siamo gettati.
La morte è "una parte costitutiva della
vita piuttosto che la sua fine semplicemente, e solo l'integrazione del
concetto della morte nel proprio sé rende possibile un'esistenza autentica e
genuina. Negando la morte si paga con un'angoscia indefinita e con
l'autoalienazione. Per capire completamente se stesso l'uomo deve affrontare la
morte, deve essere consapevole della propria morte". La maturità interiore
comporta la consapevolezza dei limiti, e la morte costituisce il limite umano fondamentale.
"In un certo senso - dice Feifel -, la disponibilità a morire appare come
una condizione necessaria di vita. Nessuna nostra azione è completamente libera
finché siamo dominati dalla volontà irrefrenabile di vivere.
La vita
non ci appartiene veramente finché non possiamo rinunciare ad essa.
Montaigne ha osservato molto acutamente: 'Solo
l'uomo che non teme più la morte cessa di
essere
uno schiavo”.
All'interno
di questa accettazione della morte, l'individuo impara gestire in maniera più
distaccata, serena, meno totalizzante le varie situazioni esistenziali, senza,
per questo, sentirle meno 'sue':vivendole, anzi, con un profondo senso di
responsabilità.
Altro
equivoco è la morte intesa solo nei suoi aspetti negativi di “fine”. Eppure
millenni di cultura sostengono il contrario, sostengono la libertà dopo la
vita. I paradisi delle diverse religioni promettono ai miseri le cose che più
sono mancate loro sulla terra eppure spesso nell’uomo c’è la volontà di vivere
comunque e nonostante tutto.
Il
ruolo della religione è piuttosto controverso nella paura della morte, in
alcuni casi la religione ha apparentemente rimosso la paura della morte in
altri l’ha causata ed incrementata. In particolare la nostra religione collega
all’idea della morte quella del giudizio, cioè la responsabilità durante
l’esistenza. La morte è il segno di un compimento, da un senso alla vita come
opera che si compie.
La
morte è un’esperienza unica ed irripetibile solo nel suo aspetto di separazione
ultima e definitiva. Ma proprio in quanto separazione, è un’esperienza già
nota, perché più volte nella vita ci separiamo da qualcuno o da qualcosa.
Il significato della morte può essere ricercato proprio nel significato
che si dà alla vita secondo l’esistenzialismo di Viktor Frankl.
La
logoterapia (da logos : significato) è stata ideata da Viktor Frankl come intervento per aiutare a ritrovare il senso
della propria esistenza. Per la logoterapia il
presupposto della salute mentale è la ricerca e la scoperta del senso personale
della vita. L’obiezione cinica, tipica della cultura contemporanea, oppone alla
speranza e alla fiducia la realtà sociale del crollo dei valori. La ricerca
ossessiva della felicità personale può deformare l’originaria domanda di senso.
Frankl ci ha insegnato che più si vuole raggiungere la propria felicità, più si
ottiene l’effetto contrario, a causa della iperriflessione. La felicità intesa
come appagamento, non come semplice e puro piacere, deriva da un atteggiamento
di apertura nei confronti della vita, dalle risposte che diamo alle richieste
dell’esistenza. La tensione verso il logos (significato, senso) comporta una
soddisfazione noetica (da NOUS = spirito, coscienza) che va oltre il principio
omeostatico del piacere freudiano e talvolta può essere in contrasto con esso.
La “crisi esistenziale”,per Frankl, costituisce un’esperienza naturale,
necessaria, ineliminabile, poiché appartiene alla nostra più intima struttura
d’essere. Interrogarsi sul senso della vita, disperarsi di fronte all’assurdità
apparente della propria situazione esistenziale è un fenomeno naturale della
coscienza, del NOUS, che comporta coraggio e onestà intellettuali ; il guardare
in faccia, la propria problematica esistenziale implica l’essere pronti ad
osservare cose sgradevoli, che vorremmo rimuovere.
Secondo Frankl l’uomo va considerato nella sua integrità
psico-fisica spirituale, orientato a trovare e a vivere il significato della
propria vita. Ma la verità` e` che molte volte non riesce a percepire questo
significato e quando viene confrontato con la triade tragica (la sofferenza, la
colpa, la morte) il significato della vita (e della triade tragica) gli sfugge
ancora di più o non lo percepisce (non riesce a vederlo) oppure non vuole o non
può accettarlo (respinge il significato percepito).
La tesi
centrale della logoterapia è che c'è sempre un significato della vita da
realizzare e sta in potere dell'uomo ricercarlo e attuarlo. Tale significato è
unico e relazionato ad ogni singola persona e ad ogni singola situazione.
"Nel contesto della logoterapia, il significato non rappresenta qualcosa
di astratto, ma qualcosa di assolutamente concreto: il concreto significato
cioè di una situazione, con cui un'altrettanto concreta persona viene a
confrontarsi" Questo significa l'unicità dei significati. Per Frankl non
esiste un significato universale della vita, ma esistono significati unici di
situazioni individuali. "Tuttavia fra queste situazioni vi sono anche di
quelle che hanno qualcosa di comune e, conseguentemente, vi sono significati
condivisi da esseri umani. Piuttosto che essere in relazione a situazioni
uniche, tali significati hanno riferimento alla condizione umana". Ed ecco
perché li chiama 'valori'
Tre
sono le principali direzioni lungo le quali l'uomo può trovare un significato
della vita. La prima consiste in ciò che egli fa, nell'opera che crea, e quindi
nel lavoro. Frankl parla, in proposito, di 'valori di creazione'. La
seconda è costituita da ciò che la persona sperimenta e vive, amando pertanto
qualcosa o qualcuno: sono i 'valori di esperienza'. Ma ci si può anche
trovare confrontati con una situazione, che ci sottrae le due possibilità su accennate
per trovare un significato della vita, una situazione che non si può cambiare.
Però, resta ancora la possibilità di trasformare il nostro atteggiamento verso
di essa, ossia il nostro atteggiamento e noi stessi. Si tratta dei 'valori
di atteggiamento'. Nessuna situazione della vita è realmente priva di
significato. È il caso della tragica triade dell'esistenza umana,
formata dal sofferenza, dalla colpa e dalla morte che possono essere sempre
trasformati in una conquista, in un'autentica prestazione, patto che si
assumano nei loro confronti un atteggiamento e un'impostazione giusti” (La
sofferenza di una vita senza senso) : "Il dolore si può trasformare
in prestazione, la colpa in elevazione, la transitorietà dell'esistenza umana
in stimolo per un agire responsabile"
“Nessuna
situazione della vita è realmente priva di significato”.La vita non è un
semplice fatto, ma una sorta di compito da portare a termine nel migliore dei
modi, secondo i tempi, i ritmi, le predisposizioni propri ad ognuno. Frankl,
che ha vissuto l'esperienza dei lager nazisti e che proprio in questi luoghi ha
perso la maggior parte delle persone a lui care (genitori e moglie compresi) è
forse tra coloro le cui parole risultano maggiormente autorevoli e credibili.
La
paura della morte si materializza nel comportamento dei pazienti affetti da
mali incurabili. Secondo la Kubler –Ross il processo della morte presenta
cinque fasi, a partire dal momento della diagnosi-sentenza fino a quello del
trapasso. Queste fasi si succedono in un periodo variabile, da poche ore a vari
anni.
La
prima fase è caratterizzata da atteggiamenti di “negazione”,
rifiuto, isolamento.
“ Una
cosa così non può essere successa proprio a me, no io no, non può essere vero”.
Dato che nel nostro inconscio siamo tutti immortali, è quasi inconcepibile
riconoscere di dover affrontare la morte. Questo rifiuto iniziale ha qualcosa
di positivo, quasi la funzione di paracolpi: permette al malato di ritrovare il
coraggio e, con il tempo, mobilizza altre difese meno radicali.
Sarebbe
preferibile parlare della morte e del morire al paziente e ai suoi familiari
molto prima che la cosa stia avvenendo in modo che possano prepararsi per
tempo.
In
genere questa fase di risveglio dura poco. Presto il paziente si isola, rifiuta
le convenzionali parole di conforto ed entra in uno stato di coscienza
crepuscolare come un dormiveglia.
Al
risveglio affiora la collera. Perché a me?! La
mente corre ai conoscenti antipatici, corre ai risparmi diventati inutili, ai
progetti divenuti irrealizzabili, a una vecchiaia che si pregustava serena e
che viene bruscamente cancellata. La collera diventa uno stile di vita: non va
bene più niente, si protesta per tutto o per nulla. Qui il problema è che pochi
sono capaci di mettersi nei panni del malato e chiedersi la ragione del suo
risentimento.
Aiutare
il malato in questa fase non è difficile. Basta comprenderlo, rispettarlo,
dedicandogli tempo ed attenzione, visitarlo con piacere più che per dovere.
La
terza fase è quella del compromesso. Con Dio:
“se ha deciso che devo morire e non risponde alle mie suppliche rabbiose, forse
può commuoversi se gli chiedo qualcosa con più delicatezza”. Con i medici:
“lasciatemi in vita ancora sei mesi, devo concludere un affare, sposare una
figlia, finire un lavoro”. Con i familiari :“moglie mia stammi vicino almeno
adesso, figlio mio non sposarti finchè sto male”. Con se stessi:”devo resistere
ho ancora tanto da fare” e ciò da una forza che permette di strappare mesi e
persino anni di vita. Lottare per la vita è umano e giusto:la vita è un bene e
i beni vanno difesi a oltranza. I sentimenti di hopelessness (non c’è più
speranza) e di helplessness ( nulla mi può più aiutare) vanno respinti finchè è
possibile, anche perché micidiali nell’accellerare il crollo delle difese
biologiche e quindi l’avvento alla morte.
Questa
fase è di grande importanza. Può diventare la più lunga e felice. Così come può
essere “saltata” dal paziente che si dichiari convinto di non avere più nulla
da chiedere alla vita. Ciò non è possibile. Spetta a chi è affettivamente
vicino al malato aiutarlo a recuperare un interesse, privilegiarlo, renderlo
l’ultimo traguardo, il più significativo appunto perché l’ultimo. C’è il
rischio che manchi il tempo materiale per raggiungere lo scopo, ma intanto la
preparazione tiene in vita e da scopo alla vita.
Segue
la depressione. Quando il malato incurabile ha
più sintomi e dolori, diventa più magro e debole, certo non può essere
disinvolto e sorridente. Ci sono due tipi di depressione una reattiva ed una
preparatoria. Il passaggio dall’una all’altra è sfumato, ma bisogna capirlo
perché ne derivano tipi diversi di comportamento e di aiuto. La prima riguarda
la tristezza per ciò che si è già è perso. Pensiamo alla donna che sia stata
mutilata di un seno o dell’utero. Le gioverà molto anche il più banale dei
complimenti. La depressione diminuisce di regola quando la paziente si accorge
che qualcuno si prende cura dei suoi problemi esistenziali.
Il
secondo tipo di depressione considera le perdite che stanno per accadere, quali
la perdita di tutti gli oggetti del proprio amore oltre a quella della propria
stessa vita. Qui è inutile cercare di incoraggiare e rassicurare il malato,
sarebbe controproducente dirgli di non essere triste. Permettendogli di
esprimere il suo dolore, troverà alla fine più facile accettare, e sarà grato a
coloro che sapranno stare con lui, durante questa fase depressiva, senza dirgli
di non essere triste.
Nel
dolore che precede la morte c’è bisogno di poche parole o addirittura di
nessuna. La solitudine è preferita alle parole forzate di una speranza di
guarigione che non avverrà. La presenza silenziosa delle persone più care è
l’aiuto migliore per cominciare a pensare alle cose che verranno piuttosto che
a quelle passate. Questa depressione è il miglior passaporto per morire in
pace.
Infine
c’è l’accettazione. Se il malato ha avuto il
tempo sufficiente ed è aiutato a superare le fasi descritte, raggiunge uno
stadio in cui è pronto ad accettare il suo destino. Non con gioia ma con
serenità. È l’ora in cui ci si intende con sguardi e carezze, in cui il tenere
la mano è un messaggio di significatività infinita. Non ci sono più sgomento e
collera né depressione e lotta. Solo pace, bisogno di pace, desiderio di pace.
È come se il dolore se ne fosse andato, la lotta è finita, ed è venuto il tempo
per il riposo finale prima del lungo viaggio. Questo è anche il tempo in cui la
famiglia ha bisogno di aiuto, comprensione ed appoggio , più del malato stesso.
Questo
non vuol dire che il malato non teme la morte, temere la morte non è
vigliaccheria: lo stesso Cristo bagnò il Getsemani di lacrime amare e di
“sudore simile a sangue” quando senti l’approssimarsi della fine della sua
missione terrena.
Un
altro problema da affrontare riguarda il concetto di “ verità al paziente”.
Il
problema di annunciare brutte notizie e la difficoltà di farlo in modo da
causare il minimo dolore possibile è un problema angoscioso per molti medici
che hanno estrema difficoltà ad annunciare ad un paziente una diagnosi
drammatica con prognosi infausta. È il momento più delicato di quel dialogo,
insieme parlato e muto, che si svolge tra medico e paziente: il momento in cui
la medicina lascia il terreno della scienza per salire ai cieli dell’arte, e in
cui il medico privilegia l’umanità alla tecnica.
Il
campo è diviso da chi sostiene tesi diverse documentate da statistiche
evidenti.
La verità ad ogni costo. È la tesi dei teologi:
trasgredire l’obbligo morale di dire la verità costituisce una privazione dei
diritti del paziente; è un furto, una violenza, un illecito. È anche la tesi
dei giuristi: ogni uomo ha diritto alla verità per quello che lo concerne; da
questo diritto consegue l’obbligo per il medico di rivelargliela. A un malato
in imminente e sicuro pericolo di vita, la verità va detta: con soavità,
circospezione, dolcezza, con tutte le riserve possibili, ma va detta
(Torrioli). Magari senza chiudere tutte le porte della speranza. Il medico non
può accollarsi la responsabilità che il malato non prenda coscienza della
realtà e non si prepari alla morte, intesa non come fine della vita ma come
l’ultimo atto della vita terrena.
Il
medico ha il dovere di vegliare sulla salute dell’uomo, che non è solo la
salute del corpo. Davanti alla morte egli deve prepararlo con lo stesso
rispetto con cui il chirurgo da informazioni sull’intervento in programma. Se,
poi, si possono guadagnare mesi o anni al solo patto che il paziente collabori
alle cure, a maggior ragione questi deve essere responsabilizzato e coinvolto
in questa ultima battaglia in cui la sicura sconfitta del corpo può coincidere
con il successo dello spirito: non dimentichiamo che “agonia” deriva da agone,
cioè gara, e non esiste competizione senza la consapevolezza della lotta.
Alsop
diceva: al malato bisogna dire la verità, ma non tutta la verità. Un uomo che
deve morire, morirà più serenamente se gli si lascia una scintilla di speranza.
Dirgli che forse morirà. Magari dirgli che probabilmente morirà. Non dirgli che
morirà certamente. Questo atteggiamento potrà indurre benefiche tensioni
spirituali oltre che decisioni tempestive, ma eviterà la disperazione. Negare
la verità passa per essere un atto umanitario, ma in realtà è inumano perché
ammette le dimissioni dello spirito (Gianfranceschi).
In
genere i pazienti sopportano bene la verità, specie se dotati di maturità,
cultura e spiritualità. La verità sconvolge assai più i familiari.
C’è un
solo caso, secondo alcuni autori in cui la verità va sottotaciuta: quando il
morente è un bambino. In effetti, alla psicologia infantile dove la fantasia
prevale sulla realtà la morte è poco comprensibile.
Mai dire la verità. È la tesi materialistica che, non
ammettendo l’aldilà, punta a sostenere la vita fino all’ultimo minuto, anche
ricorrendo all’illusione più irragionevole. Secondo questa teoria se la verità
va rivelata, ciò non tocca al medico ma ai familiari o al prete. Una bugia
pietosa non tradisce la fiducia del medico. Anzi questa fiducia prevede che il
medico sia autorizzato a cambiare cure e parole, a propria discrezione, nel
vantaggio del paziente. La morale ha una sua gerarchia: il medico deve non fare
del male finchè è possibile ( primum non nocere).
In
realtà nessuna delle due tesi può dirsi pienamente soddisfacente, specie perché
nei rapporti interpersonali, le soluzioni rigide non sono mai ottimali.
Persino
il codice deontologico è elastico (art. 30: una prognosi grave può essere
tenuta nascosta al malato ma non alla famiglia) lasciando al medico la libertà
di decidere. Solo in Svezia esiste una legge, molto recente, che in nome dei
diritti del cittadino, condanna qualsiasi bugia dei medici.
Inoltre
in medicina, il concetto di verità è ancora tutto da definire. Malattie fino a
ieri a prognosi disperata, oggi non sono più inguaribili. Malattie tutt’ora
disperate potrebbero non esserlo più domani. L’esperienza, inoltre, ha provato
che “tutto è possibile” anche dove l’evidenza clinica e il ben noto
comportamento di una certa malattia lasciano pochi dubbi. Insistere che un
malato è senza speranza talvolta può essere peggio di un delitto, può essere
uno sbaglio.
Più
spesso che non si creda la verità è già nota al paziente. Egli ha intuito. Se
pone la fatale domanda, lo fa per convincersi più che per apprendere una verità
che già conosce.
Infine,
teniamo presente che il problema non si chiude al momento in cui la verità
viene detta o intuita o fatta capire. La fase successiva è ancora più difficile
da gestire: qui scatta un’altra “ora della verità”, questa volta del medico, della
sua formazione e della sua dotazione umana. Il paziente informato diventa
particolarmente delicato e vulnerabile sul piano psichico. Ha bisogno di
sostegno e amore.
Ogni
caso dunque va affrontato caso per caso, tenendo conto della personalità del
paziente, quale emerge dalla sua storia, dalla sua esperienza di vita. Ci sono
pazienti che desiderano essere ingannati ed altri che desiderano sapere. La
verità fa bene ad un paziente e male ad un altro: il medico dovrebbe essere in
grado di valutare caso per caso.
Il Grief Counseling, è
una relazione di aiuto rivolta a persone vicine alla morte e ai loro famigliari
e può essere svolta dal counselor che affianca il medico o dal medico-counselor.
In un
corso di formazione al grief counseling, oltre che sottolineare gli
obiettivi da raggiungere, i procedimenti da seguire, le possibili complicazioni
e la valutazione dei risultati, viene rivolta particolare attenzione anche ai
vari aspetti della vita, soprattutto affettiva, dei malati e delle persone che
li assistono.
La
preparazione riguarda infatti anche significati culturali e valori spirituali,
atteggiamenti emotivi (ansia, collera, sensi di colpa, di impotenza, di
disperazione) e relativi cambiamenti.
Fra gli
obiettivi prioritari della formazione c’è il raggiungimento di una competenza
relazionale che renda possibile un lavoro interpersonale e di équipe veramente
costruttivo tale da aiutare i malati a trovare un significato per la loro
sofferenza, una finalità e una direzione dignitose alle sempre più fievoli
energie psicofisiche.
Lo
statuto di alcune associazioni mediche come quella americana, prevedeva in
passato che il medico confortasse anche l’anima del
malato; ma è facile immaginare che questo comportamento non sia oggi
diffuso, sì che alla nevrosi noogena - come Victor Frankl chiama la sofferenza
derivante dal vivere un’esistenza di cui non si scorga il significato "si
aggiunge l’ulteriore sofferenza di non trovare un senso alla malattia e al
dolore".
In
questa prospettiva, che può diventare caotica e disperata, diventa fondamentale
l’approccio psicologico umanistico-esistenziale, che riconosce all’individuo la
libertà e la responsabilità personale di scegliere come vivere fino in fondo la
propria vita. In particolare la logoterapia di Frankel riconosce al paziente
(homo patiens) anche la possibilità di scegliere come vivere la malattia e la
morte, e quale senso dare all’ineluttabilità. Un sovra-significato derivante
dal suo rapporto con la trascendenza.
In
conclusione, pur escludendo ogni regola fissa, si suggerisce al medico, una
condotta non generalizzata ma sempre propensa a rivelare la verità, ovviamente
scegliendo con cura il modo, il momento, le parole migliori, e adeguandosi allo
stato emotivo del paziente.
In
genere, la verità aiuta a prepararsi al grande viaggio, recuperare i valori
dello spirito a non lasciare carichi pendenti in doveri ed affetti, a
sopravvivere nella stima dei figli.
La
finalità non è più vincere, ma partecipare offrendo il massimo di assistenza e
di conforto alla persona seguita, permettendole di capire la sua nuova
situazione, rassicurandola e confermandole che non sarà mai abbandonata e che
verrà invece privilegiata la qualità della sua vita.
Da
tutte queste considerazioni emerge la necessità di educare i professionisti
della salute ai valori della comprensione, della tolleranza, del rispetto cioè
ai valori squisitamente etico - umanistici (etica del dubbio e della
responsabilità).
Affinché
il professionista della salute sia fedele a questi valori, non basta nutrirlo
di competenze scientifiche, fargli conoscere la psicologia, renderlo esperto
nelle tecniche di comunicazione ma si deve aiutarlo a conoscere se stesso
affinché renda fertile le proprie emozioni, renderlo “esperto in umanità”.
Affinché
l’umanità e la comprensione reciproca possa attuarsi tra paziente e medico,
quest’ultimo deve tener presente i seguenti punti cardine della comunicazione:
1.
chiedere per capire
2.
ascoltare
3.
farsi raccontare
4.
aiutare a capire
5.
partecipare e condividere
Attraverso
l’empatia che non è un’abilità ma un’attitudine: nel senso che non si insegna e
non si impara ma si può coltivare.
In
realtà attraverso un processo di crescita interiore, e di introspezione, di
modifica di valori incongrui verso altri più produttivi per il proprio copione
di vita anche l’empatia si può imparare attraverso la riscoperta di se stessi.
È
quello che è successo a me.
Svolgo
questo lavoro da dieci anni, o meglio ho svolto un lavoro per molti anni, ma da
qualche tempo non sento di svolgere più un lavoro ma di compiere ogni giorno
quello che da sempre era scritto nel mio DNA: sento di avere una vocazione!
Non è
stato sempre così. Ma attraverso un processo di crescita personale e di
conoscenza di me stessa, dei miei bisogni, delle mie paure e attraverso una
ridefinizione dei miei valori posso dire di essere, tra mille difficoltà dove
ho sempre desiderato di essere.
Ogni
sera, torno a casa dopo una lunga giornata di lavoro, o meglio dopo aver svolto
due lavori (uno che mi piace e per il quale mi sento predestinata ed uno che mi
consente di vivere), stanca ma appagata perché ho aiutato il mio prossimo nel
pieno rispetto della sua storia di vita e della sua persona; ciò contribuisce
alla mia felicità.
Ho
scelto di mettere quasi sullo stesso piano la mia famiglia e gli altri, anche
se non sempre ci riesco, ed a volte il senso di colpa mi pervade; per fortuna
dura poco, ormai ho consapevolizzato che la penso un po’ diversamente dalla
maggior parte delle persone e penso che il mio essere, e le mie scelte un
domani potranno essere un esempio per mio figlio e per gli altri figli che
spero la vita mi regalerà.
Ho
detto: non è sempre stato così. E lo ripeto a gran voce … perché cinque anni fa
sicuramente non avrei considerato quelli che erano i miei desideri più profondi
e avrei temuto il giudizio degli altri.
Ho
attraversato un lungo periodo di sofferenza interiore, avevo una bassa
autostima ero sola anche in compagnia, non riuscivo ad avere relazioni
affettive appaganti e vere, e soprattutto non mi dicevo la verità, non provavo
rabbia né mi ribellavo ai torti subiti … questo nel tempo ha portato ad
ammalarmi nel vero senso del termine.
Ma come
spesso si dice nella malattia c’è la cura, perché mi ha permesso di conoscere
il fondo e quindi di rialzarmi.
Il counseling
individuale e di gruppo ha permesso pian piano di conoscermi, di portarmi a
nuova vita senza dimenticarmi di quella vecchia ( da dove sono partita) e di
apprezzare ciò che di buono avevo fatto e ciò che forse doveva essere cambiato
fin dalle fondamenta … compreso il mio lavoro.
Un
lavoro probabilmente imposto, ma che alla fine ha trovato nel mio cambiamento
la sua ragion d’essere.
Fin da
quando ero bambina non ho mai pensato di poter svolgere altro lavoro se non
quello del medico; fin da quando ricordo, si parlava solo del ramo della
medicina che avrei potuto scegliere non del se avessi potuto scegliere un altro
lavoro. Sono nata, infatti, in una famiglia dove non esisteva altra
professione, né un avvocato, un insegnante o altro, quindi appariva naturale
che il destino per me fosse quello. Mi viene una battuta da parte della mia
ombra “certo poteva andarti peggio, di che ti lamenti”.
Sono
cresciuta continuamente a contatto di medici, ospedali, pazienti e sicuramente
ciò mi ha condizionato ed influenzato profondamente, sia in senso positivo che
in quello negativo. Credo, infatti, che il mio carattere malinconico derivi sia
dalla mia storia di vita, dalla solitudine ma anche dall’intimo contatto con la
sofferenza umana.
Ho
avuto ed ho, come modello di riferimento mio nonno.
Lo vedo
ancora davanti agli occhi: curvo, malato ma con una volontà, una conoscenza
della medicina nella sua totalità che pochi hanno che credo sia quasi
impossibile avere e una dedizione al lavoro che non ho mai visto in
nessun’altro. Sicuramente ha svolto la professione con atteggiamento
paternalistico ma all’epoca era così. I pazienti gli erano grati di una
gratitudine oggi abbastanza inusuale, non dimenticherò mai il pasticciere al
quale aveva salvato una gamba che stavano per amputare, che fino all’ultimo
giorno della sua vita, per trent’anni, gli ha mandato i dolci ogni settimana
anche quando non aveva più la pasticceria. Come i grandi geni o pittori aveva
qualche neo, era molto pessimista e non ricordo di averlo mai visto felice nella
sua vita familiare, era inoltre molto difficile il confronto con lui dal
momento che nessuno era alla sua altezza. Si è sacrificato per la sua
professione per tutta la vita, ma mi ha trasmesso l’amore per la medicina e di
questo gli sarò sempre grata.
Alla
fine, nonostante queste premesse un po’ per scelta ed un po’per il destino mi
sono iscritta ad odontoiatria, una facoltà che ti consente di raggiungere
successo e gratificazioni economiche; durante l’università il mio “io” è
rimasto placido e tranquillo fino alla laurea, per poi scalpitare subito dopo.
Non ho
mai fatto l’odontoiatra se non per quel poco che oggi mi consente di vivere ma
ho scelto di occuparmi di medicina orale: una branca dell’odontoiatria ma più
precisamente a cavallo tra la medicina e l’odontoiatria che si occupa dei
tumori del cavo orale, patologie spesso incurabili, di patologie autoimmuni
cutanee e mucose e di malattie psicosomatiche che coinvolgono il cavo orale.
Probabilmente
la storia di ognuno di noi è scritta ma occorre saperla svelare e prendersene
cura. Chi avrebbe potuto sapere allora che avrei intrapreso un cammino di
crescita che attraverso la conoscenza di me stessa mi avrebbe permesso di
entrare nelle storie di vita di tanti altri e non solo nella storia di
malattia.
Ma
andiamo per gradi, all’inizio ho svolto questo lavoro come un salvatore,
pensando di prendermi cura degli altri senza prendermi cura di me stessa, e mi
sono tuffata nel lavoro pensando di poter superare attraverso l’impegno le mie
difficoltà di vita.
Quando
avevo un dispiacere, un qualcosa che nella mia vita non andava bene, mi buttavo
a capofitto nel lavoro, e cercavo di riempire il mio vuoto interiore; per un
po’ è andata bene ma alla fine il carico emotivo che i pazienti mi richiedevano
che poggiava su un equilibrio instabile è crollato. Non riuscivo più ad essere
un sostegno, mi fondevo con la loro sofferenza e la univo alla mia con
risultati ovviamente disastrosi. Anche se mi impegnavo al massimo tutti loro
coglievano che non c’era integrazione tra ciò che dicevo e facevo, e ciò che
ero.
Il
lavoro spirituale che ho svolto in questi anni, oggi, mi consente di entrare in
contatto autentico con il paziente e di sostenerlo, di riuscire quando
possibile a trasmettergli un senso in quello che sta vivendo, a volte di
accompagnarlo alla morte senza essere sopraffatta da essa.
Per
l’affinità con quello che ho vissuto, mi occupo di un Ambulatorio sul Dolore
cronico oro-facciale che si interessa prevalentemente di una malattia
psicosomatica chiamata “sindrome della bocca urente ”, caratterizzata da
bruciore e dolore urente alla bocca in assenza di malattia che insorge
solitamente dopo un dispiacere, un periodo di vita difficile o un trauma.
Perché la bocca viene colpita? Credo perché sia il nostro organo di relazione
con il mondo circostante, una porta, che momentaneamente il paziente vuole
chiudere.
È un
campo che richiede competenze psichiatriche perché spesso questi pazienti
nascondono malattie anche gravi e se non adeguatamente trattate possono
sfociare verso la depressione.
Attraverso
le loro storie di vita, ho compreso ancora di più me stessa ed ho
ridimensionato il mio sé onnipotente sempre al centro del mondo, e le mie
problematiche quotidiane, questo mi ha reso più felice e più appagata nella mia
vita.
Ritengo
che i risultati soddisfacenti ottenuti con questi pazienti, persone prima di
tutto, non sia legato ai farmaci ma alla qualità della relazione che sono
riuscita ad instaurare e che spero migliorerà sempre di più. Ogni momento mi
metto nei loro panni, sento le loro paure e cerco di dare le risposte che io
vorrei sentire e cerco di comportarmi come vorrei che un medico si comportasse
con me.
Quando
da medico sono stata paziente, in particolare durante la mia gravidanza, la
lunga degenza in ospedale mi ha permesso di entrare in contatto con numerosi
medici ed infermieri che sono stati spietati, disumani, pessimisti nei miei
confronti; non ricordo di aver ricevuto un sorriso durante tutti quei mesi né
un sostegno o una parola di conforto alle mie lacrime. Ma questo è stato un
grande insegnamento per me, è stampato nella mia mente, affinché anch’io non
commetta gli stessi errori; capita anche a me di essere triste o nervosa ma
cerco per quanto possibile di reagire alla tristezza ed al nervosismo con
positività ed altruismo e di considerare i miei problemi in relazione a quelli
degli altri, ciò mi aiuta a ridimensionarli e a trovare ogni giorno la forza
per svolgere una professione d’aiuto.
Ringrazio
la vita e la mia leggenda personale di avermi aiutato a realizzare tutto ciò!
Le
storie di vita che ho ascoltato e che ascolto, ogni giorno, sono nella mia
memoria costantemente e indelebilmente; storie di sofferenze così profonde che
mi hanno annichilito e spesso lasciato senza parole.
La
storia di Domenico, tossicodipendente per 20 anni, che dopo aver trovato la
forza di affrontare i suoi problemi, di entrare in comunità e di uscire dal
tunnel della droga; dove non lo aveva ucciso la droga lo stavano per uccidere i
medici diagnosticandogli un tumore al colon che non aveva e per il quale era
stato programmato un intervento e la chemioterapia. La sofferenza degli ultimi
anni, il suo dolore non poteva fare altro che esplodere sul suo corpo e sull’unica
parte che lo metteva in relazione con il mondo.
La
storia di Andrea, 18 anni, alcolizzato da quattro anni, che per tutta la vita
si era sentito inadeguato, inabile come essere umano, senza sogni o speranze
che si sentiva se stesso solo quando tutti i suoi freni inibitori venivano meno
grazie all’alcool.
Il suo
sintomo? Un nodo alla gola, quasi a testimoniare l’impossibilità di digerire
ciò che gli altri gli avevano fatto e ciò che lui continuava a fare a se
stesso.
La
storia di Giulia, che aveva assistito alla morte del marito nel corso di una
sparatoria per rapina, che si era chiusa nel suo mondo ed aveva preferito non
elaborare mai questo lutto ma accantonarlo in un angolo della sua anima.
Ovviamente il dolore, dopo alcuni anni era esploso e si era manifestato con
dolori in tutto il corpo per la mancanza di qualsiasi speranza nel presente o
nel futuro. “Ella viveva attaccata al passato a ciò che era stato e che non era
più.”
La
storia di Anita che credeva di avere una malattia infettiva grave perché quando
faceva l’amore con il suo amante, nei giorni successivi sentiva un bruciore
alla bocca ed agli organi genitali e non si era mai domandata se il suo vivere
nella menzogna fosse la reale causa della sua sofferenza.
La
storia di Claudia, che ogni giorno faceva un esame diverso alla ricerca di quel
tumore che non trovava ma che era convinta di avere o meritare, che cercava
dovunque la propria infelicità quasi per esorcizzare i suoi sensi di colpa.
Potrei
parlare di mille storie, perché le malattie spesso arrivano dove la mente non
può, …
Daniela
Adamo
Art 32: il medico non deve intraprendere attività
diagnostica e terapeutica senza acquisizione del consenso informato del
paziente. Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario
se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i
limiti imposti dal rispetto della persona umana.